All’ombra delle foglie: fumetto città eterotopia
di Valerio Bindi
Testo rilasciato in CREATIVE COMMONS [BY SA] e liberamente scaricabile. Ogni donazione all’associazione La Bagarre con cui organizzo molteplici attività è benvenuta.
Uno scorpione si era sperduto in un luogo insolito di fronte ad uno stagno che gli bloccava la strada. Si fermò lì finché non vide una rana.
“Rana ti prego portami all’altra riva!”
“Scorpione tu così mi colpirai con la coda pungente e mi ucciderai!”
“Rana e perché mai? Se io lo facessi tu affonderesti ed io con te!”
A questa risposta, la rana prese sulla schiena lo scorpione e cominciò a nuotare, ma nel mezzo dello stagno lo scorpione colpì a morte la rana col suo pungiglione.
“Perché lo hai fatto Scorpione? Così morirai anche tu!”
E lo scorpione affogando: “Che ci posso fare Rana, questa è la mia natura!”
La prima mossa è nel vuoto. La mappa che il Bellman aveva comprato per l’equipaggio a caccia dello Snark di Lewis Carroll, canto secondo, sedicesimo verso (La caccia allo Snualo, Pordenone 1985). Una mappa “perfetta e assolutamente vuota” come protestava allegramente l’equipaggio, senza gli inutili segnali convenzionali, perché ognuno fosse in grado di comprenderla, di usarla, di nominarla. È lo spazio liscio assoluto il mare, dove la rotta traccia linee dalle stelle, individua una posizione relativa e provvisoria, inesatta e misurata. Un luogo insolito solcato dalle navi e inutilmente striato dalle linee del Mercatore, che non riescono a disegnarlo, a progettarne lo spazio.
“La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l’avventura e la polizia i corsari.” Michel Foucault
Nel suo ‘Des espaces autres’ (Spazi Altri, Milano 2001), conferenza tenuta a Tunisi nel marzo 1967, Foucault mette a sistema la teoria dell’eterotopia. Individua, posiziona, costruisce mondi da qualche parte altra, al di là dello specchio.
Il sistema fumetto è di là dello specchio. Si tratta di un media topologico, come discusso da Thierry Groensteen (Système de la bande dessinée, Parigi 1999). Una forma di scrittura articolata nello spazio segnico della rappresentazione, un medium narrativo di dislocazione. Una scrittura iconica, composta di indici deterritorializzati che approdano di volta in volta al regime di segni ordinato dall’autore. Le figure del fumetto sono scritte oltre che disegnate, appartengono ad un piano fortemente connesso alla parola. Sono inseparabili da questa, che sia presente o no. Le immagini iconizzate, utili a comporre le vignette, le finestre, sono i simboli in cui il linguaggio si riterritorializza. Su queste icone si conforma poi lo stile, l’errore consapevolmente esercitato, che si appropria del tratto e lo distingue.
Queste figure si dispongono nello spazio bidimensionale del progetto e si articolano nel vuoto della griglia del tempo che organizza il fumetto, costruendo una connessione, un concatenamento: la forma della storia. Un’interfaccia forte, densa di spazi bianchi, clessidre dove il tempo organizza il suo racconto. Le vignette sono pannelli di controllo spazio-temporale, “consolle di comando operativo che consente al lettore di definire e attuare un testo” (Gino Frezza in Fumetti, anime del visibile, Roma 1999).
Icone organizzate topologicamente in una relazione di prossimità; spazi-tempo giustapposti e concatenati; immagini-tempo, immagini-spazio, immagini-parola. Immagini compatte. Già viste da Raymond Douglas Bradbury in una intervista del 1982 (Ray Bradbury, Lo zen nell’arte della scrittura, Roma 2000). Sognate, misurate, tagliate, ri(pro)dotte, compresse, lasciate in sospeso e poi osservate: ecco le immagini compatte. Fianco a fianco le vignette stabiliscono relazioni non sovrapponibili. Seguendo Foucault, disegnano luoghi che “hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi e rispecchiati”. In una parola eterotopie, attualizzate nella lettura secondo la mappa del sistema fumetto. Tutte le vignette tracciano sempre un luogo, tutti i luoghi disegnati sono in relazione gli uni con gli altri. E tutti restano “luoghi al di fuori da ogni luogo per quanto possano essere effettivamente localizzabili”.
L’appartenenza del fumetto al quadro teorico delle eterotopie è verificata in ognuno dei sei principi che Foucault individua come fondanti. Ogni cultura produce le sue narrazioni per immagini, e ogni storia ha un suo peculiare motore funzionale. Ogni fumetto giustappone luoghi e sguardi incompatibili tra loro ed è connesso alla suddivisione del tempo. Apre infatti all’eterocronia, perché “l’eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta con il loro tempo tradizionale”. È sempre previsto un sistema di apertura e chiusura, per isolare e penetrare la narrazione, ed è sempre sviluppata una funzione con lo spazio rimanente. Anzi il fumetto continua ad inventare funzioni da sviluppare con l’altro da sé. Resta una struttura nomade.
La storia è un tappeto, un giardino narrativo, concluso e separato: “il giardino è un tappeto in cui il mondo intero ha appena realizzato la sua perfezione simbolica, e il tappeto è una sorta di giardino mobile che attraversa lo spazio” (MF,1967). Ed è ancora su di un tappeto volante, l’arazzo di Bayeux, che stanno le stringhe di codice genetico del fumetto. Si tratta di un disegno e di un progetto, di luoghi connettivi, concatenati, tramati e tessuti. La storia è un luogo, la struttura di vignette è un edificio da abitare, frame by frame. E la strada che percorre questi manufatti è significata proprio dalle caselle vuote, gli spazi bianchi che permettono l’avanzamento. “I giochi hanno bisogno della casella vuota, senza cui nulla avanzerebbe o funzionerebbe” Gilles Deleuze, 1976, ‘À quoi reconnaît-on le structuralisme?’ (Lo strutturalismo, Milano 2001).
La connessione tra fumetto e architettura, come visto, sta in un livello profondo del sistema, nel codice di uso sociale e di progettazione spazio-tempo, ma anche nella mutazione che il capitale induce nel tessuto. Le grandi strip urbane dispongono vagoni di strutture come vignette giustapposte, si organizzano della medesima articolazione topologica. La produzione di produzione e la produzione di domanda costruiscono la città, cui si impone una griglia di controllo, di normalizzazione. In ‘Premières discussions, premiers balbutiements: la ville est-elle une force productive ou d’antiproductions?’ (1972, ancora in Spazi Altri, Milano 2001) Felix Guattari sostiene: “esistono dunque diverse definizioni possibili della città a seconda del congiungersi dei flussi deterritorializzati, che siano di scrittura, di danaro, di capitale o altro. E via via si identificano la città e il corpo senz’organi del capitale: dalla capitale al capitale”.
La città è qui accumulazione e posizionamento di capitale ed è apparato collettivo e sociale, corpo senz’organi, formato alla confluenza dei ritmi delle micro-narrazioni che ne delineano il continuo presente, le mutazioni, la storia. La città è la storia, la narrazione è la città. “L’apparato collettivo è preso nell’universo della rappresentazione (…). Ma il primo apparato collettivo è la lingua, che permette la messa in codice di elementi disgiunti. La città è il corpo senz’organi della macchina di scrittura”, così continua Guattari. Una città di vignette abitabili, percorribili, attraversabili, struttura il sistema fumetto. La figurazione urbana sottende sempre la scrittura per immagini, in realtà non esiste fumetto che non paghi il tributo al suo corpo metropolitano. Little Nemo, Batman, Topolino e i suoi, Tintin, The Spirit, Krazy Cat, Ranxerox, Tetsuwan Atom: una costellazione di città. Smisurate, oscure, residenziali, astratte, pullulanti, diradate, multiplanari, antiche e postmoderne città. E viceversa la metropoli contemporanea adotta una struttura a griglia vuoto-pieno, a grandi vignette territoriali: “lo spazio metropolitano è dunque, alternanza di zone di congestione e frazioni di deserto, è territorio controllato che combina aree sotto stretta sorveglianza, porzioni di ambiti ‘protetti’ e sostanzialmente deterritorializzati, a superfici ed architetture che sfuggono temporaneamente ad operazioni di dominio e vigilanza capillare” (Francesca Iovino, Residenze Istantanee, Chieti 2005).
Nel 1980 due diversi tessuti urbani sorgono nel fumetto. Uno, mezzo europea e mezzo americano, edificato da Art Spiegelman in ‘Maus, A Survivor’s Tale’ (Maus, il racconto di un sopravvissuto, Milano 1989, 1992) in cui “alla definizione di narrativa come descrizione di una sequenza di eventi, Spiegelman sostituisce la definizione medievale di Historia, ovvero suddivisione orizzontale di un edificio o fila di finestre contenenti immagini. La metafora architettonica conferisce al termine un’evidente profondità semantica” come dichiara l’autore e ricorda Ofelia Kennes in ‘Note su la scrittura di Maus’ (Roma 1994). L’altro tessuto è giapponese e iperrealistico in ‘Domu‘ di Katsuiro Otomo (Domu Sogni di Bambini, Roma 2005). Su questa città insiste un racconto ricorsivo e sottile, che ancora una volta traversa le strade dell’eterotopia e dello spazio-tempo integrato del Ma. Tutta la storia è nelle due sillabe del titolo Do-Mu, estrema icona, Sogno-Bambino del fumettista e architetto Otomo.
La prima mossa è nel vuoto. Sogni-bambini solcano un campo bianco. Non c’è parola, non c’è suono. Senza fretta, la città si compone di esseri sociali intenti al gioco. In alto un ragazzo porta un cappello alato. Seguilo quel berretto, incedono nella storia quelle ali strappate. – Il berretto di Takeshi è bellissimo. Ha perfino le ali… – È quello che si dirà nella tavola seguente. Il primo disegno, poi le prime parole. Annunciate sottovoce.
Al bianco, il nero. Finestra in una vignetta. Siamo in un interno, buio di china. Già dentro adesso, nel luogo che accumula tutti i concatenamenti della storia. Giochi in ombra, un aereo appeso ad un filo, un telefono rotto. Territorio velocità comunicazione. Icone che si riterritorializzano in simboli: i flussi e i processi metropolitani ammucchiati all’oscuro sotto le finestre-occhio, icone del condominio-controllo e aperte sulla struttura, finestre-vignetta.
Un passo. Il primo passo. Camminando già nell’allucinazione febbrile, uno stato di follia prefigurante, il processo schizo di Guattari. La visione operante si scolla dalla configurazione vigente delle cose, penetra nel tracciato topologico emozionale della scrittura, produce una rappresentazione. Che rumore fa il passo di una gamba sola? Tap.
Tutto il tempo che serve. La discarica dei giocattoli, dei sogni, appare sfocata di retino grigio. La storia segue quel cappello, cerca questi sogni sognati e rapiti. Ecco che appaiono subito e ci costringono alla mossa del cavallo, laterale e distratta, l’unico movimento possibile, quello della creazione, dell’attribuzione di senso. La narrazione si apre con le sue connessioni giustapposte, voce narrante e sonoro leggero. Manca ancora qualcosa, poi tutte le icone, le epifanie, saranno sotto i nostri occhi. Da lì in avanti scorrerà un fiume.
Cappello di spalle. Ali, non si riesce a volare senza, ali sulla testa, conficcate nel cervello. Pronti, si parte. Tap Tap. Una porta. Si entra nella storia da una porta. Ma non è un’entrata è un’uscita, uscita di sicurezza lampeggia in alto. Una porta come quella spalancata da Duchamp. Fuori dal controllo, una linea di fuga. Usciamo allora dal qui e dall’ora. È tutto pronto: dislocazione.
La città di Otomo si stende costruttivista nel buio della notte, nelle luci di sorveglianza, nelle strisce multipiano. C’è vita forse nei livelli del condominio, ma non si vede nessuno. Una vita privata, accumulata, capitalizzata. Anche il volo che fa l’uomo è invisibile. Da un punto fra le luci arriva secco il rumore dell’urto. E lo pronuncia l’edificio, senza espressione. THUD.
Queste sono le prime cinque tavole di Domu. Il rito di passaggio dal territorio della realtà reale all’eterotopia fumetto. Tutto quello che segue sarà già stato in queste vignette. È prefigurato, promesso, un divenire-fumetto, come in “un giardino ‘kaiyushiki’ i cui elementi sono collocati non per essere apprezzati in una visione globale ma per rivelarsi progressivamente in un percorso che si svolge nel tempo” (Teruyuki Monnai, Un glossario di concetti spaziali, Casabella 608-609 1994). La storia è quella di un vecchio, ladro di sogni e di vite, che si scontra con una giovane desiderante nella terra di nessuno di un accumulatore sociale. Il conflitto esplode in crescendo, in una dialettica della distruzione che è uno scontro tra samurai metropolitani. Samurai deboli e molto potenti. Un vecchio, una bambina. E intorno una folla logorata, instabile, con minuscoli intensi desideri catalizzati su feticci sfibrati dal tempo. Il vecchio ruba, la bambina libera. Una parabola che muove fra questi confini.
In ‘Johnny Panic e la Bibbia dei sogni’ di Sylvia Plath (Milano 2003), un racconto del 1958 pubblicato postumo, abbiamo lo stesso furto e la storia si conclude con lo stesso volo: “il suo amore è il salto dal ventesimo piano”. Per amore di Johnny Panic, appunto, Creatore di sogni. L’intera narrazione si svolge nell’eterotopia di deviazione che è l’ospedale psichiatrico. Memorie oniriche raccolte “non per fermare i sogni, né per spiegarli o sfruttarli per volgari fini pratici di salute e felicità, ma per collezionare i sogni in quanto tali”. Do, detto con Otomo, qui però sottratti e conservati per essere preservati dalla terapia invisibile, quella che aveva condannato Harry Bilbo ad un banale destino di normalità una volta fuori dalla pura luce di Johnny Panic. ”Giorno dopo giorno vedo questi psichiatri che si affannano a strappare a Johnny Panic i suoi adepti, per amore o per forza, e con parole, parole, parole. (…) Bisogna dimenticare il sognatore e ricordare il sogno: l’uomo non è che un consistente veicolo per il grande Fattore di Sogni”.
Così la vicenda è capovolta: il vecchio signor Cho è Johnny Panic ed esige il suo tributo mortale per allestire il suo magazzino. E il combattimento fra il Creatore dei sogni e la bambina si apre proprio con un’immagine capovolta, che ha disperso il suo punto di vista, precipitando in alto con le ali conficcate nel cervello. L’architettura, struttura sociale, sentinella e testimone, vacilla con un ronzio a bassa frequenza, un rumore bianco scritto sulla città. Una porta si apre ancora nel nero e si compie il ritornello: appare finalmente, sfocata nel retino grigio, la stanza dei giocattoli. L’anello si chiude. Verso la metabole, la trasformazione irreparabile dell’ambiente e della narrazione. La distruzione, perché nuova aria passi attraverso. Poi il silenzio.
Nella sequenza conclusiva la storia torna sui suoi passi, con il passo muto di una gamba sola. L’edificio è pattern, griglia striata delle vite che accumula. Un giardino di giochi, giardino narrativo, lo circonda. Un’altalena combatte contro un vecchio bastone, fino ad un’altra casella vuota. Fa poco rumore. “Oggi possiamo pensare soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso. Questo vuoto infatti non costituisce una mancanza; non prescrive una lacuna da colmare. Non è né più né meno che l’apertura di uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare” (M. Foucault, Le parole e le cose, Milano 1998). Instabile, aperta, la struttura del fumetto si sospende, con una chiusura e un’apertura, di nuovo. Panic-Cho è morto, la bambina delicatamente e inaspettatamente dissolta, svanita nel nulla, vanished away, appunto, come lo Snark, mentre l’altalena dondola ancora. Perché l’ultima parola è sempre la penultima e anche l’ultima vignetta è sempre la penultima.