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Digitooned (Animazione digitale) (2002) – Valerio Bindi

Digitooned (Animazione digitale) (2002)

Arte connettiva & net comix

di Valerio Bindi
prefazione di Franco Berardi Bifo

Klee diceva: “Un artista non riproduce la Natura. Riproduce il Visibile.” Intravede cioè l’universo nagual, il non-visto, e nello scorgerlo lo rende visibile allo spettatore.

William S. Burroughs

dalla quarta di copertina

La riconfigurazione profonda delle forme narrative e iconiche che il digitale comporta non poteva non interessare due antichi sistemi di segni: il fumetto e l’animazione. Questo libro è una navigazione a vista che attraversa i nuovi media, che osserva le mutazioni e gli scenari che stanno delineandosi per questi linguaggi. Un percorso nelle sperimentazioni delle avanguardie storiche e fra le derive situazioniste per tracciare una linea intorno ai processi di riduzione e riproduzione che caratterizzano il digitale. Un libro che è il primo lavoro di analisi dei segni della nuova arte connettiva che si sta facendo linguaggio delle nostre esperienze.

Testo originariamente rilasciato sotto copyright e oggi disponibile in CREATIVE COMMONS [BY NC SA] e liberamente scaricabile per usi non commerciali, ogni donazione all’associazione La Bagarre con cui organizzo molteplici attività è benvenuta.

donate

Nota: di questo testo l’editore Marenero ha stampato un volume nel 2002 da lungo tempo esaurito con il titolo “Animazione digitale: flash cartoon & net comix”, l’editing era curato da Diego Coniglio. Lo stesso software che venti anni fa sorprendeva per la sua duttilità, Flash, e che determinò titolo e sottotitolo del libro, ha ora terminato la sua corsa: è del 13 gennaio 2021 la notizia dell’end of life di Flash, e della dismissione del suo player di cui non si garantisce più sicurezza e funzionalità. Il testo a seguire è lo stesso di questa prima edizione, qui (per ora) privo del ricco apparato di immagini. Circa i link non più attivi segnalati si consiglia di visitare Archive.org per versioni storiche dei siti. Diverse sezioni mostrano il segno del tempo trascorso, alcuni argomenti hanno trovato sviluppi divergenti. Perfino Flash si è estinto! Va ricordato che si tratta di un testo che analizza gli sviluppi agli albori della rete. Ad esempio il capitolo 2.2. che raccoglie esperienze che arrivano appunto al giugno 2002: si tratta di “archeologia dei media” ad uno sguardo contemporaneo. Tuttavia si impostano in questo saggio alcune considerazioni su di una teoria estetica dei nuovi media che forse possono attivare nel lettore ancora connessioni oggi come in qualche modo ne hanno attivate allora. O almeno lo spero.

Animazione Digitale di Valerio Bindi

è possibile scaricare una copia digitale del libro qui https://www.academia.edu/s/0c0a57a15c

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Vuk Cosic – The Official History of Net.art – volume IV – ascii history of art for the blind – duchamp
http://www.ljudmila.org/~vuk/ascii/blind/

Indice

  • Prefazione
    1. Per una poetica dei linguaggi connettivo-immersivi di Franco Berardi Bifo

Che cos’è l’animazione nei nuovi media

  1. Disegno e interazione
    1. Scienza come arte
    2. Rituali di realtà
    3. Le immagini compatte
    4. Disponibilità dei media
    5. Fumetto mappa di flusso: articolazioni spaziali
    6. La direzione della visione: concatenamenti temporali
    7. La storia è il luogo: disegno e interazione
  2. Navigazione ipermediale
    1. Connessioni
    2. Esperienze
  3. Progetto e strumenti
    1. Il processo schizo: il progetto dell’interazione
    2. Icone e idoli: la maschera
    3. Immagini vettoriali interattive: strumenti autore
    4. Regia ipermediale: il taglio della narrazione
    5. La casa piatta
  4. Bibliografia essenziale

I titoli dei capitoli sono illustrati da citazioni tratte da Hagakure, Il Codice Segreto dei Samurai di Yamamoto Tsunetomo, traduzione di L. Soletta, Roma 1993.

Prefazione

1. Breve introduzione per una poetica dei linguaggi connettivo-immersivi

di Franco Berardi Bifo

Nell’ambito della riflessione sulla comunicazione, soprattutto digitale, è stata fino ad ora sottovalutata, – o proprio marginalizzata – la dimensione estetica. Naturalmente ogni rappresentante di commercio vi dirà che certo, certo, la piacevolezza dei prodotti fa parte della loro leggibilità o del loro appeal commerciale, e quindi, come no, l’estetica non va trascurata. Ma io non intendo affatto parlare di questo: l’estetica intesa come confezione, è quanto di più ripugnante, e di più distante dai problemi che sono affrontati in questo libro di Valerio Bindi che si propone di “conoscere bene il territorio, la lingua e le vie nascoste” del ciberspazio. Estetica significa scienza della percezione: oggetto essenziale della riflessione estetica è la sensibilità, in quanto è la coscienza sensibile che produce le variazioni poetiche del significato, ed è la coscienza sensibile che viene impressionata, deformata, modellata dalle variazioni poetiche della infosfera, o sfera in cui la mente sensibile si trova immersa. L’organismo umano è organismo sensibile-cosciente. Coscienza e sensibilità, pur essendo due diverse modalità di elaborazione cognitiva sono indissociabili nell’umano. Coscienza senza sensibilità è meno che coscienza, è pura capacità di calcolo, di valutazione razionale. La sensibilità è sintonia con la variazione razionalmente impercettibile, discriminazione dell’incalcolabile. L’umano si distingue per la sua capacità di valutare l’incalcolabile. Ma come si valuta l’incalcolabile nell’universo essenzialmente calcolatorio (numerico, come dicono i francesi) che è quello della comunicazione digitale?
Nella sfera della comunicazione digitale il problema della sensibilità si pone in una maniera che non si era mai vista prima. E dico questo da due diversi punti di vista: quello della costruzione dell’opera, del messaggio, dell’ordigno segnico che si propone alla lettura, navigazione, immersione o interazione, ma anche dal punto di vista dell’effetto che l’opera, (messaggio, stimolo segnico) produce sull’organismo sensibile cosciente. Vi sono aspetti estetici specifici in un congegno semiotico di tipo immersivo e connettivo. Uso la parola connettivo perché la rete è uno spazio creato dalla connessione di un numero qualsivoglia di attori indipendentemente dalla loro collocazione nello spazio. E uso la parola immersivo perché l’ipertesto multimediale della rete non riguarda soltanto le parole o i segni simbolici, ma gli stimoli visuali e neurali, che immergono il ricevente in un flusso del quale esso stesso diviene parte, potendovi partecipare come emittente. Il ciberspazio è invaso da particelle che agiscono piuttosto come virus, come attrattori asignificanti di significazione.
Quando passiamo dalla semiosi sequenziale alfabetica alla semiosi ipermediale immersiva stiamo transitando dalla sfera del significato alla sfera dell’effetto. Il centro dell’attenzione si sposta dalla domanda: “cosa significa?” verso la domanda “che effetto fa?”. La semiosi (il processo di produrre segni) e l’Infosfera (la sfera in cui i segni si incontrano e divengono il nostro ambiente mentale) prende la forma di un flusso piuttosto che quella di un testo. Il flusso non è strutturato come una sequela di unità segniche reversibili e discrete, ma come una configurazione che combina vari livelli di significato in forma simultanea. Questa configurazione ha inoltre la capacità di coinvolgere il suo destinatario, facendone un attore del processo interattivo, attraverso la pervasione sinestetica della sua attenzione.
In generale i segni linguistici possono funzionare come denotazione. Le parole del linguaggio comune sono usate per denotare cose in una forma più o meno precisa, perseguendo una riduzione di ambiguità, cioè mirando a semplificare le modalità di accesso al significato. Il linguaggio della scienza, poi, mira a ottenere una completa disambiguazione, attraverso la creazione di convenzioni intersoggettive stringenti che stabiliscono il significato di ogni segno in modo tale da assicurare il consenso della comunità scientifica sulle enunciazioni che ne risultano. Il linguaggio della poesia, al contrario, accentua la funzione connotativa, e l’ambiguità è apprezzata come il modo migliore per allargare il campo semantico. Il segno poetico è plurisemantico, o polisenso, e si riferisce ai diversi strati di interpretazione, che aprono diverse prospettive di comunicazione. Queste considerazioni valgono naturalmente anche quando parliamo del segno a carattere ipermediale, connettivo-immersivo.
Nel linguaggio Internet l’unità minima di significato è il link, connessione di territori di significazione differenti (e qualche volta lontani tra loro). La principale specificità del link sta nella sua ambiguità contestuale, cioè la sua leggibilità entro contesti diversi e dal punto di vista di processi significazionali differenti. Di conseguenza il link apre varie possibilità di lettura di significazione, e apre diverse catene percettive e testuali. Perciò direi che una poetica di rete è vicina alla metodologia ricombinante. La net art (arte connettiva, o arte della connessione) deriva dalla ricombinazione fluida di frammenti preesistenti: frammenti testuali, grafici, visuali, frammenti di sonorità, ciascuno dei quali porta un carico di significazione, di significato decontestualizzato che acquista nuovo senso entro le diverse configurazioni che possono determinarsi provvisoriamente nel processo di ricombinazione.
Quando ci troviamo nell’oceano neurotelematico proviamo spesso la sensazione di nuotare sempre più veloci verso la riva, mentre la riva si allontana sempre di più. Leggere in rete è in un certo senso come percepire qualcosa in rapido sorvolo, spostandosi continuamente da un testo a un’immagine, da una immagine a un suono. Ne risulta un effetto ansiogeno di significazione tachicardica. La netpoetica inizia di qui: da questa accelerazione e volatilizzazione. I prodotti dell’arte connettiva possono essere visti come cartografie di territori segnici vastissimi, potenzialmente illimitati e sempre estensibili, piuttosto che come testi.
A questa prospettiva si contrappone una visione puramente “economica” della comunicazione. In una visione di questo genere occorre ridurre l’ambiguità dei congegni semiotici che produciamo, di quelli alfabetico-sequenziali non meno che di quelli connettivo-immersivi che la tecnologia digitale mette a disposizione della nostra azione creativa. Ha avuto molta fortuna negli ultimi tempi un libro di Jakob Nielsen che parla di web usability (vedi J. Nielsen, Web usability, Apogeo, 2000). Nielsen dice: l’utente di Internet deve essere messo nella condizione di usare la rete nella maniera più semplice, e la sua potrebbe sembrare una rivendicazione del tutto ovvia.
Ma se il discorso “economico” della web usability diviene il contesto generale di un discorso sulla comunicazione digitale, allora in questa concezione emerge un aspetto pericoloso. Rendere le cose semplici è il principio che conduce alla piena mercificazione della rete, come di ogni altra forma di comunicazione. Rendere le cose semplici significa creare implicazioni automatiche (di tipo tecnico, linguistico, comportamentale) grazie alle quali gli utenti (specialmente i nuovi utenti) possano essere automaticamente condotti a seguire certi percorsi comunicativi, che sono implicitamente anche e soltanto percorsi economici.
Chi pensa che la comunicazione deve essere priva di ambiguità rivela una certa ignoranza della funzione semiotica essenziale dell’ambiguità. Non ambiguo è il linguaggio della matematica e delle scienze esatte, naturalmente, ma questo ha poco a che fare con i processi di comunicazione sociale. Non ambiguo è il linguaggio normativo della legge, e il linguaggio convenzionale della transazione economica. L’ambiguità è invece un elemento essenziale di ogni comunicazione che non voglia ridursi a mera ingiunzione. Uno scambio di messaggi, una interazione, può essere non ambigua solo quando è privata di ogni sottigliezza, di ogni ricchezza e possibilità creativa, e quindi usata come ingiunzione, ordine che deve essere eseguito. Il sogno della web usability di cui parla Nielsen è quello di ridurre il linguaggio a semplice informazione, ma il linguaggio non è solo informazione, è anche fascinazione, immaginazione, ironia, metafora, menzogna, segreto. E l’ambiente immersivo e connettivo allarga questo campo di ambiguità, a meno che non lo si voglia rinchiudere in una catena di automatismi.
La comunicazione non può essere ridotta a scambio di segni denotativi (significanti che univocamente denotano un significato), e la filosofia della web usability trascura il ruolo dell’ambiguità nel campo della comunicazione, proprio mentre in un ambiente connettivo-immersivo il ruolo dell’ambiguità (metafora, ironia, doppio senso) non è affatto ridotto, ma piuttosto ampliato, esaltato.
In che direzione si modifica il linguaggio umano, per effetto della diffusione delle tecnologie digitali, e delle applicazioni che rendono possibili flussi immersivi di semiosi connettiva? Non lo possiamo sapere, perché su questo piano è in corso una battaglia che è destinata a non concludersi mai. Il linguaggio è il campo di una lotta tra diverse prospettive, strategie, interessi, intuizioni, possibilità. Per esempio, può accadere che le cose vadano nella direzione auspicata da Nielsen, cioè nella direzione di una progressiva riduzione di ambiguità della comunicazione, fino alla riduzione degli agenti comunicativi umani in puri e semplici terminali di pacchetti preconfezionati di significato univoco. Se guardiamo al divenire della rete negli ultimi dieci anni qualcosa può farci sospettare che le cose vadano proprio in quella direzione, seguendo un percorso in discesa di semplificazione progressiva delle interfacce, dei percorsi, delle interpretazioni. All’inizio il ciberspazio era una dimensione illimitata e selvaggia senza cartelli indicatori, poi venne progressivamente ordinata attraverso interfacce di orientamento e di semplificazione, fino ai tentativi di ridurla a un grande imbuto attraverso il quale veicolare una melassa unificata di immagini stili consumi. Ma il ciberspazio, che non è una cosa sola e mai lo sarà, produce anche derive di ambiguità, pluralità di esiti dell’interazione, allargamento del campo semantico, creazione di scenari imprevedibili di senso divergente. È questa la battaglia della poesia che si svolge nella sfera delle nuove forme di comunicazione digitale, attraverso l’esplorazione di tutte le possibilità dello spazio immersivo e connettivo, anche di quelle meno coerenti con il contesto economico della comunicazione.

Che cos’è l’animazione nei nuovi media

L’illusionismo è un’arte interamente intenta a trarre profitto dai limiti visivi del testimone attaccando la sua capacità innata di distinguere tra il reale e quanto crede vero e autentico, conducendolo così a credere fermamente a ciò che non esiste.
Robert Houdin

Il mondo che percepiamo è un cartone animato creato dalle nostre menti a partire da segnali che arrivano come pura energia al ritmo di milioni di blip al secondo. (…) La realtà nel vecchio senso aristotelico del termine è una stampella per quelli che hanno paura a camminare con le proprie gambe sopra l’Abisso che si apre quando iniziamo a distruggere i nostri modelli mentali, e ci
fermiamo a interrogarci… a interrogarci davvero…
Robert Anton Wilson

Perché tutti noi, intrepidi o sognatori, siamo costretti a costruirci un mondo intorno, finché ci è possibile, cerchiamo di proteggerci dalla pioggia chiudendoci fra splendide mura.
William Wollmann

1. Disegno e interazione

1.1. Scienza come arte

1.60. Un samurai usa lo spazzolino da denti anche se non mangia.

Il punto di vista è determinante per osservare la mutazione.
Per essere nel movimento è necessario essere nella cerniera, nel luogo che è struttura stessa del muovere, il vincolo che concede la rotazione. Ma per osservare i flussi e gli spostamenti dovremo metterci a distanza di sicurezza, allontanarci seguendo un’altra dimensione. Solo così osserveremo le lancette girare.
Il primo esercizio da compiere è l’allontanamento, prendere distanza e leggere i segni del mutamento.
Abbiamo a disposizione un grande ammasso di storia di scienza di arte e di criteri di verità. Abbiamo a disposizione gli elementi che hanno composto le macchine della nostra visione e della nostra rappresentazione della realtà. Abbiamo a disposizione la grande discarica delle mezze idee dei progetti irrealizzabili e delle missioni da compiere. Tutto questo banchetto è a portata dei nostri terminali di ricezione dei nostri occhi e dei nostri nervi. Allora allontaniamoci.
Scienza e arte viste da quassù non sono poi così distanti. La disposizione di una nuvola di punti rappresentativi di variabili assegnate sullo spazio cartesiano può essere misurata tanto quanto la vibrazione tonale dei rossi sulla mappa di colori che compone un’immagine digitale. Mappata e vettorializzata un’immagine è ancora una rappresentazione della realtà oppure, ora e di qui in ora, è la rappresentazione di un’immagine?
Un punto di vista di un punto di vista?
Che ne è della costanza leonardiana dell’osservatore che modifica e interviene nell’opera d’arte, che con il solo vedere appunto ne altera l’espressione, la visione?
Osservazione è alterazione. Visione è apparizione.
“L’artista”, dice James Joyce “è il cuore pulsante del suo tempo”. Come lo scienziato. L’incedere della scienza e dell’arte è sintopico e sincronico verso una percezione dello stato di cose presenti. Costruire questa percezione, determinarne le forme e le regole espressive, la struttura e la sintassi, è un cammino immobile sul tapis-roulant della storia. Per la scienza come per l’arte.
Scienza e arte sono talmente connesse da esprimersi l’una nell’altra: solo un atto artistico può essere eretico, solo un atto scientifico può essere misurato. Non c’è verifica per questa affermazione romantica. Non abbiamo strumenti per misurare se non per approssimazione. Potremmo dire che la misura non esiste. Quanto deve essere alto il piano di seduta di una sedia? Una sedia è alta quanto una sedia. O meglio è alta quanto ci serve alta. Una sedia è fatta per star seduti più comodi possibile. L’eresia è l’attributo più alto della scienza. Come il dichiarare con tutta l’evidenza dell’osservazione che il re è certamente, indiscutibilmente, veramente nudo. Come Galileo.
Possiamo sostituire i termini e l’affermazione resta indimostrabile: solo un atto artistico può essere misurato, solo un atto scientifico può essere eretico. Dove sta la verità? Dove la realtà? Nei dati o nella loro osservazione, nella loro alterazione? “Non si chiede più alla scienza di capire il mondo, o di migliorare qualcosa. Le si chiede di giustificare istantaneamente tutto ciò che si fa”, dice Guy Debord nei Commentari sulla Società dello Spettacolo (XIV). La definizione di una teoria non dipende mai univocamente dai fatti(1). Semplicemente li conduce a sé. Solo un atto artistico può essere scientifico. Solo un atto scientifico può essere artistico. Tutto qui, così semplice e sotto gli occhi di tutti. Facile come comporre un cadavere squisito.
Siamo abbastanza lontani?
Possiamo scendere veloci nell’Abisso, ora. No Future, l’urlo tatuato del punk era una premonizione e una percezione del presente. No Geography secondo Virilio. No Logo secondo Klein.
Eccoci nel qui ed ora continuo della comunicazione istantanea globale. Nella No-Tecture. Sparati a palla nelle maglie larghe della rete. A spasso nella matrice. Scienza e arte confluiscono sono Tech-Scienza e Tech-Arte nella società del controllo. Sono mappate da Echelon tutte e due. Sono sulla rete e nella rete. Sono misurate nell’unità spazialmente non rappresentativa dei kilobytes per secondo.
La tecnologia, usata come scudo alla condivisione dei saperi, ha prodotto l’alchimia, la Tech-Magia delle macchine e delle procedure. Ha chiuso le scatole per non farci guardare dentro. Ma noi abbiamo i martelli.
La tecnologia, usata come piede di porco, fabbrica Tech-Corpi, insinuandosi sotto la pelle, “non è fuori di noi, è molto vicina a noi”(2). Ci conduce allo zapatismo digitale, alla condivisione permanente delle informazioni, alla rivolta immediata. Alla mutazione.
Note

1 P.K. Feyerabend, Scienza come Arte, Bari 1984; trad. it. L. Sosio, pgg. 174-175: “le concezioni quantitative, ossia le idee teoriche, non vengono mai determinate in modo univoco dall’elemento quantitativo delle scienze, ossia dai fatti.”
2 B. Sterling, Mirrorshades, Milano 1994; trad. it. D. Brolli, A. Caronia; pag. 20.

1.2. Rituali di realtà

2.8. Io penso che all’inizio sia bene tirarsi indietro un poco e, dopo aver osservato la profondità dell’acqua, agire in modo da non dare dispiacere al signore.

Arpanet era una infrastruttura strategica e militare, studiata in ambito universitario, che avrebbe potuto fronteggiare le interruzioni di comunicazioni magnetiche, le radiazioni di una guerra atomica. E Internet, che ne discende, è determinata dalla guerra fredda quanto New-Berlino (e l’Europa del post-muro-di-Berlino).
Una infrastruttura di telecomunicazione. Una centuriazione dello spazio dell’informazione. Una pianificazione di grande scala. La sterminata e caotica rete è una metapoli globale, una struttura che, come la città moderna, è organizzata sostanzialmente per la gestione degli scambi e il transito dei flussi. Un luogo dell’esperienza umana. Una architettura no-tecture e un tempo asignificante, numerizzato. “L’immaterialità delle sue componenti, delle sue reti, viarie e altre, le cui trame [nella città contemporanea] non s’iscrivono più nello spazio di un tessuto costruito, ma entro le sequenze di una impercettibile pianificazione del tempo”(3), tempo che scandisce e regola la relazione abitante/organismo urbano. Le dimensioni e la percezione del continuum spazio-temporale, del piano di realtà in cui siamo immersi, si estremizza. Il tempo nella rete allo spazio si sostituisce del tutto: “non vi è più qui, tutto è ora”.(4)
Disponiamo di un mezzo di diffusione di sensori d’informazione che è progettato come un campo militare, cardo e decumano sono sotto controllo. Sono sempre sotto gli occhi. Ma nulla è visibile e nulla è commensurabile: “la distanza è morta”(5). Abbiamo azzerato lo spazio e abbiamo un tempo presente continuo di scambi e di flussi. Condensato immateriale delle strutture urbane, città di infrastrutture e di connessioni, nessun interspazio, nessuna zona neutra: ecco la rete. Come una casa fatta solo di porte duchampiane, porte che solo virtualmente chiudono essendo progettate per restare sempre aperte, così la rete è un sistema di collegamenti fra risorse ben posizionate. Sempre aperti, sempre chiusi.
I gironi, i webring, della città possono essere tracciati e mappati come gli esperimenti di I/O/D sembrano confermare. Li vedi congelati, fotogramma per fotogramma, in una mappa dei flussi a-spaziale e non rappresentativa ma significante, mappa in mutazione continua. Quale viaggiatore vuole una mappa grande quanto il paese che mappa, si chiedeva il vecchio Borges. Una mappa assente, che non rappresenta spazi e distanze ma che disegna sé stessa. Una mappa di linguaggio e tempo. Ecco dove sta la virtualità della rete. Nel suo essere più profondo. “Questa è la ‘città potenziale’ dove l’illusione del movimento si misura costantemente con l’illusione dell’azione”.(6)
La finestra è il periscopio, la superficie di contatto, il Cavallo di Troia. La maschera di un rapporto di scambio de-localizzato e profondamente gerarchico. “Quali realtà, quali domini di oggetti e rituali di verità produce la finestra?” si chiede Mattew Fuller. Nel Mondo Piatto di una realtà schiacciata è la superficie l’unica interfaccia. Sullo schermo liscio si comprime il linguaggio e si deve rappresentare l’interazione. Non si interagisce, si rappresenta l’interazione. L’immagine si fa rappresentazione di un’immagine, la realtà si fa rituale di realtà. Tutti quei bagliori sono rituali, quelle luci e quelle ombre che i nostri schermi continuamente tracciano sono simulate passioni. Tutta la irritante e barocca spesa di prospettiva, la tridimensionalità delle finestre e dei bottoni (bottoni? come nella migliore scientifiction…) sono rituali di realtà. Usati perché ritenuti necessari all’affermazione di un linguaggio, ma non connaturati. Elementi privi di corpo continuamente tesi a dimostrare la propria corporeità.
Perché la nostra corsa nel ciberspazio, o meglio nell’idea del ciberspazio che ci è tracciata attorno, non sia una corsa del topo dobbiamo conoscere bene il territorio, la lingua e le vie nascoste. Dobbiamo sapere chi ha disegnato il nostro avatar e quello della vurt-città che ci lascia liberi ma sotto i suoi occhi. Questa macchina della realtà è una “disorder riding machine”, come dice ancora Fuller, “una macchina che cavalca l’apocalisse su una precisa linea dritta”.(7) Frutto e strumento di una società disciplinare e disciplinata, panottico e capillare del potere. Sistema che prevede la via della classificazione, che contrasta ferocemente la circolazione. Dobbiamo muoverci veloci e dobbiamo sapere che non ci sarà spostamento. Saremo vincolati e senza distanze. Siamo in una rete di connessioni non reticolare, non metrica. È il nostro tocco il produttore di senso. Non resta che una scelta da compiere per rallentare o velocizzare il nostro andare. Quella del movimento laterale, della deriva.
“L’uomo è un edificio pericolante costruito con frammenti dogmi traumi infantili articoli di giornale osservazioni casuali vecchi film piccole vittorie gente amata e gente odiata”, come scrive Salman Rushdie. Di questo uomo la rete messa a nudo è un ritratto molto somigliante.
Note

3 P. Virilio, Lo spazio critico, trad. it. M.G. Porcelli, Bari 1988, pag. 11.
4 P. Virilio, La bomba informatica, trad. it. G. Piana, Milano 2000, pag. 110.
5 R. Nirre, Spatial Discursions: Flames of the Digital and Ashes of the Real. Confessions of a San Francisco Programmer, Ctheory, Febbraio 2001, CTheory vol 24, N.1-2, articolo 92, 13-02-2001, a cura di Arthur and Marilouise Kroker, https://journals.uvic.ca/index.php/ctheory/article/view/14596.
6 F. Iovino, Occhi aperti spalle scoperte, viaggio in una città potenziale, in “Posse” 2/3; Roma 2001.
7 M. Fuller, Eating Disorder: The Story of a Shape, CTheory, 23-04-1997, a cura di Arthur and Marilouise Kroker, https://journals.uvic.ca/index.php/ctheory/article/view/14640/5505

1.3. Le immagini compatte

1.166. Non c’è più nessuno capace di vedere la realtà delle cose.

La cosa per quello che è. Cercando di spiare con la penna x-ray, per vedere attraverso i muri. Una pagina qualsiasi della rete è testo codificato da marcatori, un libro scritto con alcuni accorgimenti: href per costruire collegamenti, codici per il colore, per esempio #0000FF, e testo o qualche migliaio di pixel quadrati e ordinati in bitmap, se serve. Punta e clicca, attiva le connessioni, cerca, attraversa. Il flusso corre in piccoli pacchetti separati e raggiunge il nostro hard disk, ancora copia e incolla. Ancora accumula. È lo scheletro che sta sotto la pelle viva, ‘t ‘ain’t no sin to take off your skin and dance around in your bones [non devi vergognarti di toglierti la pelle e danzare in giro nelle tue ossa] canticchiano Ray Bradbury e William Burroughs.
Il rapporto fra arte e tecnologia non va indagato solo nei meccanicismi delle avanguardie, è sepolto molto lontano. Non era tecnologia estrema e automatica la prospettiva? Non è laggiù che si nasconde il potere assoluto della rappresentazione tridimensionale? Non corre in ossa e tracciati attraverso prospettive sontuose, e kitsch, Lara Croft? Certo senza la xerox non si sarebbero potuti fotocopiare i 101 dalmati disneyani ma la riproducibilità dell’opera d’arte non è stata inventata in un cartone animato, o forse sì, ma questa è un’altra storia.
È stato un percorso che ha visto secoli di dolorosa riproduzione analogica, quella che ha distrutto sempre e per sempre gli originali di Piranesi e di Hokusai con la chirurgica offesa dell’incisore. L’affermazione un segno.
Ora, evidenziando la sua processualità, il progetto si sposta sulla superficie con la felice riproduzione digitale, quella che nasconde dietro un labirinto di specchi l’inizio del processo di clonazione. Scriveva Marcel Duchamp: “Un altro aspetto del readymade è che non ha niente di unico… La replica di un readymade trasmette lo stesso messaggio; di fatto tutti i readymade esistenti oggi non sono degli originali nel senso usuale del termine”. E preparava la prima raccolta ipermediale di artefatti, la boîte-en-valise (la scatola-nella-valigia), una raccolta di riproduzioni miniaturizzate delle sue opere, una valigetta portatile come i nostri pc-en-valise. Eppure essa stessa opera d’arte, indistinguibile dagli ‘originali’ che clonava usando le tecnologie della riproduzione e della riduzione.
Ci siamo appena lasciati dietro il novecento, il secolo del cinema, della sua invenzione e soprattutto, ma non solo, della diffusione dei suoi semi nei nostri occhi. “Esiste un rapporto tra i più grandi poemi e le più grandi sceneggiature: entrambi usano immagini compatte”.(8) Raymond Douglas Bradbury in una intervista del 1982. Queste sono parole interessanti. Sognate misurate tagliate ri(pro)dotte compresse lasciate in sospeso e poi osservate: ecco le immagini compatte. Sono i segni di un linguaggio, una parte della struttura non una questione di tecnologia.
Apparteniamo ad una cultura che ha desiderato e immaginato la costruzione di una forma di rappresentazione compatta della realtà e si è dotata delle tecnologie necessarie a questo progetto. Tecnologie di riduzione e riproduzione applicate alla scienza e all’arte, sviluppate all’interno e in funzione di un quadro teorico di riferimento. Date le condizioni al contorno, possiamo dire. Sappiamo che le prime macchine di sintesi erano telai industriali per la produzione tessile, e che da qui si sviluppavano le intuizioni di Charles Babbage. Il linguaggio che si prefigurava poteva farsi produzione solo all’interno di una dinamica economica e si è impiegato parecchio tempo prima di innescare questa macchina di lavoro virtuale. In sostanza il capitale ha deciso i tempi di attuazione e le modalità, tentando di definirne anche la narrazione. Era una questione di narrazione quella che opponeva la Microsoft alla Apple, è una questione di narrazione quella che oppone l’apertura dei codici alla loro registrazione proprietaria.
Ma la tecnologia può appartenere anche ad altri romanzi, può assumere diversi territori. Rilassiamoci e proviamo a vederla da questo punto. Né demone né demiurgo, la tecnologia fornisce mezzi possibili alle nostre indagini, può produrre parte del lavoro intellettuale che ci serve.
È l’indagine artistica e scientifica a prefigurare le nuove forme che hanno attraversato il settecento e l’ottocento: le narrazioni dichiaratamente ipertestuali (da Tristam Shandy ai romanzi di frammenti di Kafka fino alle trame che Thomas Pynchon ha tracciato, tutto il romanzo è un ipertesto) ma anche le raffigurazioni epifaniche di automi e macchine interattive, i progetti e le realizzazioni di architetture di ferro e cristallo, lo studio del comportamento delle strutture reticolari, le teorie combinatorie e le necessità complesse di calcolo. Il nostro tecno-apparato, la nostra different engine, deve molto alle progettazioni fantascientifiche che artisti e scienziati hanno condotto con gli occhi bene aperti in una stanza scura, è una pentola che ha bollito a lungo prima di esplodere e imporre la sterzata. È stato necessario un passaggio di riconfigurazione generale del tessuto economico, urbano e sociale, una deflagrazione avvenuta solo all’inizio del secolo scorso, bagnata dal grande mare di sangue sacrificale della prima e seconda guerra mondiale. Nessun D-Day sarebbe stato possibile senza la macchina calcolatrice pratica universale di Alan M. Turing, l’unica in grado di decodificare le criptazioni naziste.
La spinta a rinnovare la macchina da guerra è un motore e uno degli effetti collaterali della guerra. È parte della struttura del capitale. Quando sedete di fronte ad un ordinatore elettronico, ricordate sempre che state seduti di fronte alla sublimazione, solo talvolta detournata, di un’arma. È un’arma il quadro che genera la realtà per tutti “quei tecnici militari che sorvegliano giorno e notte gli schermi, che abitano o abiteranno per lungo tempo sottomarini strategici e satelliti: quali saranno mai i loro occhi, le loro orecchie d’apocalisse, che non potranno nemmeno più distinguere un fenomeno fisico, un volo di locuste, un attacco “nemico” venuto da un punto qualunque?”(9)
I processi industriali e produttivi non erano stati ancora attivati, ma la macchina differenziale avrebbe potuto essere già in funzione. La Chinotropia, l’arte mai inventata dei perforatori/disegnatori di schede (ricordate le perforazioni del disegnatore/erpice kafkiano de Nella Colonia Penale?), la digitalizzazione del cinematografo così come scoperta da Gibson e Sterling avrebbe potuto incantare gli occhi giovani e affamati dei nonni dei nostri nonni. “Malgrado la risoluzione dello schermo sia piuttosto modesta, e la velocità di cambio piuttosto bassa, sono stati ottenuti degli effetti notevoli, grazie alla compressione algoritmica, presumo”.(10) Stessi problemi erano nei primi videogiochi: i simulatori di volo per addestramento militare che non ebbero successo all’inizio, fuori dal contesto di provenienza. Estratti dal proprio intorno linguistico.
Non era ancora stato individuato il quadro di riferimento. Doveva apparire il suprematista Pong di Nolan Bushnell (l’ingegnere fondatore della Atari, anno 1971) ad introdurre un giardino zen nelle linee di scansione dei tubi catodici, e a catturarci sbalorditi seguendo le disavventure di un quadrato bianco che sfugge a due rettangoli bianchi in campo nero.
Di quel piccolo quadrato bianco ne avevamo già sentito da Platone nel dialogo fra Teeteto e Socrate: “ogni numero il quale ha la possibilità di derivare dalla moltiplicazione fra loro di due fattori eguali, lo rassomigliammo nella figura ad un quadrato, e lo chiamammo numero quadrato”(11) (la descrizione dei numeri rettangoli poi segue di un passo). E l’avevamo già visto dipinto da Kazimir Malevich, immagine compatta e elemento base (pixel), “forma-immagine numerizzata”(12) di ogni tavola di rappresentazione combinatoria.

Note

8 R. Bradbury, Lo zen nell’arte della scrittura, Roma 2000; trad. it. P. Nori e S. Catrina, pag. 112.
9 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani IV, Apparato di cattura,14.1440., Roma 1997; trad. it. G. Passerone, pag. 101.
10 W. Gibson B. Sterling, La macchina della realtà, Milano 1992, trad. it. D. Zinoni; pag. 51. La tecnica della Chinotropia, così come inventata dagli autori, prevede una matrice di tasselli di legno che, tramite rotazione, possano mostrare facce di colore differente, per formare immagini in una sorta di impressionismo meccanico. Attualmente una simile struttura, ma composta di minuscoli specchi che possono essere illuminati o non illuminati, viene usata dalla tecnologia di proiezione DLP che si basa sulla riflessione di fasci di luce rossi verdi e blu ad una velocità di aggiornamento, questa volta, altissima.
11 Platone, Teeteto, 147-b.
12 P. Virilio, Lo spazio critico, op.cit., pag. 113.

1.4. Disponibilità dei media

10.127. Prima di cadere ero molto preoccupato, ma adesso sono veramente calmo. Anche voi tutti se volete essere tranquilli,
buttatevi giù [nel precipizio].

Eccoci qui seduti nel bel mezzo della società dell’informazione, il luogo dove le immagini compatte si oggettivizzano, si fanno materia. Qui siamo, con le mani legate e gli occhi wide open (spalancati), come in Arancia Meccanica, a forza di tiranti sulle palpebre. Le immagini compatte nel mondo piatto del Vurt diventano veri e propri oggetti nella nostra mente, pretendono una loro propria tridimensionalità della percezione, non più legata a fatti quantitativi spaziali, misure di ampiezza e profondità. Negli anni venti del novecento questa considerazione già aveva una sua chiarezza esplicativa: Magritte aveva cominciato a scriverlo sui suoi quadri che questa non è una pipa. Le immagini non stanno confinate in un dominio laterale della percezione della realtà ma entrano in competizione diretta con questa, le si sovrappongono, la riscrivono stabilendo un dubbio di legittimità. È il linguaggio, il potere della parola, a determinare la realtà oggettualizzata di una rappresentazione.
Una maniglia e una porta possono assumere, o perdere, il proprio significato a secondo dell’intorno linguistico e di significati in cui sono inserite. Una porta appoggiata alla parete piena di graffiti di una grotta di sessantamila anni fa non significa, non può significare, per l’uomo che lì abita: aprimi e chiudimi, entra in un ambito protetto della tua casa. Al massimo significa legno lavorato appoggiata alla parete. Sarebbe più facilmente reinterpretata che compresa, riprogettata più che utilizzata. Il significato esiste ma non può essere conosciuto. Ci vuole un intorno fatto di pareti e bucature, ambienti specializzati, differenziati per funzioni ed uso. Solo così scattano le connessioni e la porta assume la sua valenza di separazione mobile, controllata da elementi che ne consentono la rotazione e il serramento. Aperta o chiusa. Almeno fino a che non ci imbattiamo nella porta al numero 11 di Rue Larrey aperta e mai richiusa da Marcel Duchamp (1927). Una porta della percezione.
Il linguaggio binario, aperto/chiuso, acceso/spento, del computer, come Macchina Astratta enumeratrice e ordinatrice, è un telaio che costruisce per nodi una rappresentazione della realtà così fortemente quantificabile eppure così assolutamente non commisurata, percorribile ma non attraversabile, che manda in cortocircuito i nostri processi di percezione ed identificazione. Siamo immersi in un sistema discreto di punti, numerabile ed esteso ma estremamente frammentato, ad alta densità, che si presenta contemporaneamente a diversi livelli della nostra percezione. Siamo portati, per non contraddire le informazioni che continuamente riceviamo ed elaboriamo, alla realtà virtuale, alla compenetrazione dei due dati, fisico e percettivo. La definizione dei rituali di realtà diventa centrale: per essere certo di avere a che fare con qualcosa di veramente reale, ho necessità di trovare nei dintorni dell’oggetto delle conferme, dei lacci verso il piano della realtà che non mandino in tilt l’apparato. Devo costruire una narrazione per immagini compatte in cui includere il personaggio che sto definendo.
Un antico problema della progettazione e della narrazione costituisce un ambito complesso nella realtà di sintesi: la disponibilità dei media. Intesa nel senso della zuhandenheit heideggeriana,(13) la disponibilità di un media è la sua capacità di mostrare con continuità alla percezione la sua presenza e la sua usabilità. Nella progettazione questi punti si sono fatti avanti con chiarezza già dalle teorie che guidavano le scuole politecniche, che dovettero riconfigurare l’architettura all’interno della rivoluzione industriale.
Vi sono tre categorie di forme e proporzioni: “quelle che nascono dalla natura dei materiali e dall’uso degli oggetti per i quali sono impiegati; quelle che ci sono in qualche modo necessarie per la forza dell’abitudine, come le forme e le proporzioni degli edifici antichi; infine quelle che, più semplici e più determinate, sono da noi preferite per la facilità che abbiamo a coglierle visivamente”(14) così scriveva sulla normalizzazione degli ordini di architettura Jean-Nicolas-Louis Durand, insegnante all’Ecole politechnique fin dal 1797. Un insegnamento visionario.
Dobbiamo tornare a fermare l’attenzione su spazio e tempo. Di un oggetto che ci è sintopico, che ci è compresente nello spazio, sperimentiamo la presenza con diversi livelli di indagine percettiva e di linguaggio. Vediamo come ci appare e leggiamo cosa significano le forme che lo definiscono. Ma non basta. Con l’azione diretta su questo oggetto compresente sperimentiamo l’uso che ci permette, modifichiamo il suo stato, a partire dai vincoli ineludibili dello spazio reale che resta il sistema di riferimento.
Trasferiamo questa esperienza su di un oggetto sincronico, che ci è compresente nel tempo e che possiamo osservare. Abbiamo bisogno di trasferire l’indagine percettiva su di un piano mediatico, sulla trasmissione di informazioni. Ci è richiesta una certa misura di fiducia (e fede) in alcuni dati non direttamente verificabili dall’esperienza, che ci si presentano in un contesto simulato. La stessa presenza è del tutto inverificabile ai nostri sensi, un po’ come quella delle stelle che ci appaiono ora essendo spente da millenni. Deve essere costruito insieme all’immagine un sistema di referenze che rendano l’immagine compresente: è necessario un intorno significante capace di trasferire le sue valenze sull’oggetto che porta l’informazione, che altrimenti resta solo un punto della rete. Si può costruire la simulazione di una vista panottica dell’oggetto che consenta l’esplorazione virtuale dell’ambiente in cui sta, come è possibile costruire un sistema di azioni simulate, di interazioni, che ci consentano di comprendere sperimentalmente gli usi possibili di quell’oggetto.
In effetti non c’è nessuna variazione di procedimento dal punto di vista della sperimentazione e della conoscenza, la differenza è solo nella struttura degli oggetti che sono una volta concreti, materiali, e una volta virtuali, codificati e numerizzati. E dobbiamo pensare che nemmeno questa sia una differenza sostanziale. In ogni caso gli oggetti vengono prima percepiti e formati nella nostra mente come immagini e quindi oggettivati. Anche se non dovesse essere costruito un sistema di referenze, la nostra mente procede comunque come se lo fosse. Il significato c’è: si tratta al massimo di capire qual è, o semplicemente di trovarlo, questo è il ragionamento che si attiva. Si avvia così un processo di conoscenza a partire dall’elemento di connessione su cui siamo, che può essere dotato di una direzione e di un verso oppure no, ma che muove alla ricerca di possibili interazioni.
Nella società dell’informazione, per costruire la disponibilità dei media, alla presenza sintopica si sostituisce la presenza sincronica, all’azione l’interazione. Il sistema di relazioni che devono stabilirsi tra chi osserva, il testimone, e chi è osservato, l’oggetto, va completamente riconfigurato, stabilendo una serie di strati interattivi che consentano l’esperienza. Tutti gli strati di interferenza successivi fra il testimone e l’oggetto costituiscono l’interfaccia. L’interfaccia secondo questa accezione esiste anche al di fuori di questo rapporto virtuale. È sempre stato un campo di interrelazione fra l’uomo e l’ambiente antropizzato. È il luogo del progetto e della raccolta dei segni. È il luogo della mutazione. L’interfaccia è l’elemento destinato a sopportare tutto il carico che dall’attivazione di questo processo deriva. Sarà l’interfaccia a determinare il successo del rapporto testimone/oggetto e a costruire la realtà virtuale, l’epifania delle immagini compatte. Se l’interfaccia svolge il suo compito scatterà il meccanismo che ci porta a considerare l’oggetto della nostra osservazione un essere, che esiste e che risponde alla interazione, come un vivente. Come un golem attivato, appunto, dal linguaggio.
Resta una programmata definizione di campo: l’interazione è la rappresentazione di una azione. È, nella sua sostanza, un’operazione, in parte vincolata, di recupero di informazioni generate o archiviate che siano, che assume sostanza dai rituali di realtà in cui è immersa. “Le informazioni prese da sole non hanno nessun significato se non per la macchina che sceglie di interpretarle”.(15) In questo senso l’interazione è il luogo del progetto, uno spazio aperto definito a partire da un sistema di vincoli di linguaggio e di significato, fortemente finalizzato all’uso. Una macchina che produce senso nella connessione delle celle di dati. Questo sistema puntiforme e attivo, la rete di relazioni che permea gli oggetti digitali, attraversa le forme del linguaggio e le riprogetta e, in un meccanismo di scambio, a sua volta subisce una reinterpretazione, una ricodificazione. In questo andare e venire continuo c’è l’affermazione di un regime di segni(16) che vengono continuamente prodotti e confermati in un processo iterativo, ma non necessariamente lineare. Anzi con i salti caratteristici dell’elaborazione cognitiva: non saranno magari verificate le condizioni limite, ma ve ne saranno di dedotte o intuite relativamente all’intorno.
Si tratta di una riconfigurazione che coinvolge a tutti i livelli le strutture della narrazione di cui disponiamo: l’attività affabulatoria dell’uomo, quella che produce progetti romanzi e tesi scientifiche, è un’attività per sua stessa natura ipertestuale, lo è sempre stata e ciò sia nella fase di formazione, come si è detto, che in quella di ricezione delle informazioni. In tutti e due questi momenti è necessaria una produzione di connessioni ad alto livello, la creazione di immagini compatte è un processo sempre attivo, in questo senso le due fasi sono continuamente coincidenti. Indipendentemente dalla tecnologia di riferimento del media.
Pensiamo alla scrittura e alle possibili tecnologie su cui si è di volta in volta configurata: ogni nuova introduzione di metodologia di comunicazione, ma anche solo di riproduzione di un testo scritto, ha modificato le modalità della scrittura. Oralità, scrittura, stampa, digitale, e simmetricamente anche graffito, dipinto, ancora stampa e digitale. Una catena di tecnologie del media che non ha certo determinato il ‘progresso’ della narrazione, ma la definizione della sua modernità, della sua contemporaneità. Una sequenza che non ha influito sulla presenza costante di una rete di riferimenti e di livelli di interpretazione non presenti nel testo/immagine, ma sopra di esso, direttamente nel mondo cui il lettore appartiene e in cui si riconosce. Quante epifanie sono in un libro o in un dipinto? Certo più di quante siano scritte o disegnate.
La mutazione prodotta fa intersecare diversi piani su di uno stesso livello: una presenza nella realtà virtuale è un immagine, un oggetto o un’azione(17)? Certo deve essere tutte le cose insieme, altrimenti si produce il dubbio stesso che questa presenza sia. Ciò modifica di ritorno la percezione stessa: ora possiamo guardare leggere e usare un testo, un immagine, un suono, un filmato. I nostri sensi sono inibiti perché non c’è verifica possibile. Non significa che restino inoperosi, anzi sono invece iperattivi proprio perché inibiti. Continuamente alla prova. Impegnati a capire se la cosa coincide con il segno. Le nostre mani vanno a finire nei nostri occhi che diventano prensili. Sono i primi strumenti designati per la definizione del piano di realtà.
Per gli effetti di reciprocità e di scambio che un tale approccio conoscitivo provoca, una volta che ci spostiamo nella virtualità reale, nel piano della realtà, possiamo richiedere al mondo che stiamo sperimentando le medesime modalità d’interazione. Oltre che abitare in una casa, una città, ora desideriamo di interagire con questa e ci aspettiamo che risponda in modo concreto e determinato ai nostri comportamenti. Vi sono numerosissimi esempi di realizzazioni architettoniche di questo tipo, architetture integrate, macchine per abitare capaci di valutare e modificare configurazioni microclimatiche e illuminazione di ambienti pubblici. Come esistono reti neurali digitali che controllano catene produttive e perfino comportamenti sociali.
Questo quadro di riferimento può essere portato ovunque. È un virus che si diffonde con estrema rapidità nelle nostre connessioni. Ogni volta riscrive tutto dal nuovo punto di vista assunto. Fino a ridisegnarci. Fino all’interpretazione del funzionamento biologico del nostro sistema sensoriale e cognitivo: “la mente è il cervello e il corpo che lavorano insieme e reagiscono all’ambiente; il cervello per conto suo non può spiegare da solo la mente (..) La mente umana è composta di elementi che, se analizzati obbiettivamente, sembrano essere notevolmente “inumani” nella concezione occidentale. In altre parole noi siamo fatti di livelli di differenti tipi di menti a base biologica, fortemente interconnesse, ma che svolgono compiti diversi nei diversi momenti delle nostre vite, usando risorse condivise”. Greg Bear in una intervista raccolta da Eugene Thacker.(18)
Lo stesso Bear, fisico e matematico che prosegue l’antica tradizione degli scrittori scientifici alla Hinton, scrisse un visionario racconto, La musica del sangue(19), in cui ipotizzava l’esistenza di cellule sociali e collaborative, i noociti, in grado di costruire, e ricostruire, una conoscenza collettiva della realtà capace di sfociare in una mutazione completa dei suoi parametri di definizione. Una volta conosciuto il mondo, e le sue leggi, in un processo culturale localizzato si poteva riscrivere il mondo e le sue leggi e dislocarlo. Se ne poteva ricostruire il territorio e la disposizione di ogni punto nello spazio. La legge della gravità non esiste in sé stessa, ma nella sua definizione operata all’interno di specifiche condizioni di tempo, di cultura e vita. Un organismo dotato anche solo di una densità diversa dalla nostra l’avrebbe scritta in maniera differente.
Ecco il punto sta qui, una volta riscritta la legge cambia. Nel senso che la gravità potrebbe non esistere più come l’abbiamo conosciuta e sperimentata finora. Una volta modificata in un punto la conoscenza di questo mutamento fa sì che anche gli altri punti siano soggetti a mutazione. Fino a permettere l’esistenza sincronica di due differenti leggi della gravità sullo stesso pianeta, che continuano a modificarsi a vicenda. Non è una cosa impossibile da immaginare in definitiva: ci sono cose che passano attraverso i muri e cose che da questi sono fermate. La struttura della materia è sempre mutamento e sostanza insieme, onda e corpuscolo. Inserendola in un quadro di riferimento diverso la riprogettiamo nella nostra percezione, la sua essenza resta la stessa.
La definizione del piano di realtà dipende da un assunto cognitivo, dalla costituzione di un sistema di segni anche contraddittori, di materia e antimateria. Non dobbiamo tanto preoccuparci di trovare lo schema, la mappa del mondo, quanto di definirne ora uno provvisorio e in mutazione costante che non faccia crollare questo universo in due giorni, come direbbe Dick. Ma intanto non siamo più là, nel punto da cui si è iniziato il viaggio. Da uno spazio striato che abbiamo disegnato, lo spazio digitale del tessuto di punti, è derivato uno spazio liscio, lo spazio delle connessioni della realtà virtuale, luogo di accumulazione, percorso liberamente e reinterpretato.(20)

Note

13 Questo concetto viene ridefinito in: G. Bonsiepe, Dall’oggetto all’interfaccia, Milano 1995, trad. it. F. Costa. Possiamo affiancare a questo concetto quello di affordance, di tutt’altra origine. Viene enunciato da J.J. Gibson in Perceiving Acting and Knowing, Hillsdale 1977, e indica l’insieme di azioni permesse e suggerite che è possibile effettuare su di un oggetto in funzione del compimento di una specifica attività. Lo studio dell’affordance è centrale negli scritti di Donald Norman (autore de La caffettiera del masochista e de Il Computer Invisibile) che se ne serve per focalizzare il processo progettuale e produttivo sulla comprensione umana, per ricomporre le azioni all’interno di un contesto coerente che garantisca controllo all’utente.
14 J.-N.-L. Durand, Nouveau Précis des leçons d’architecture données a l’Ecole Impériale polytecnique, Parigi 1819, Formes et proportions, pag. 53. Come riportato in: W. Szambien, J.-N.-L. Durand. Il metodo e la norma in architettura, Venezia 1986, trad. it. Giulio Lupo, pag. 113.
15 R. Nirre, op.cit.
16 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani IV, Rizoma, 5.587A.C., 70 D.C., Roma 1997; trad. it. G. Passerone, pag. 199: “Chiamiamo regime di segni ogni specifica formalizzazione d’espressione, almeno nel caso in cui l’espressione è linguistica. Un regime di segni costituisce una semeiotica”.
17 S. Penge, Fare e capire il digitale, Roma, pag. 35: “Nel mondo come lo conosciamo oggetti e azioni, materie prime e macchinari sono cose ben diverse. Persino la lingua sembra poggiare sulla distinzione tra nomi e verbi. Invece nel mondo digitale un’operazione può essere rappresentata in modo omogeneo agli altri dati; può essere non solo eseguita, ma organizzata insieme ad altre operazioni, memorizzata, modificata o addirittura creata dal nulla”.
18 Tech Flesh 02, 09-05-2001, CTheory, a cura di Arthur and Marilouise Kroker, https://journals.uvic.ca/index.php/ctheory/article/view/14428/5762
19 G. Bear, L’ultima fase, Milano 1987; trad. it. G. Zuddas.
20 Questi termini sono discussi in G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani IV, Apparato di cattura, op.cit., il liscio e lo striato.

1.5. Fumetto mappa di flusso: articolazioni spaziali

1.24. I pesci non vivono nell’acqua troppo pulita.

Vi è un regime di segni che si è sviluppato in una zona neutra, all’intersezione di più piani. Non so se sia cresciuto così per usufruire di più vie per insediarsi nel dominio della percezione. Molti gli antenati cui possa rifarsi che di certo sono antichissimi, potremmo attribuirgli anche tremila anni di sperimentazioni genetiche. Essenzialmente è un bastardo. Un figlio impuro per cui nessuno scannerebbe il maiale grasso. Ma attenzione non è un prodotto di laboratorio, è formato di incroci come i migliori linguaggi. Come tutti i linguaggi. È furbo come ogni buon meticcio, sta sotto la sabbia, conosce il suo ambiente e laggiù comanda. È un disgraziato che non ha nessuna intenzione di tirare le cuoia, ma continua vagabondare e a far parlare di sé.
Cerchiamo di entrare nel regime di segni che regge il mondo del fumetto. Non è cosa facile, anche se ormai è stata a lungo dibattuta, attraversata.(21) La sua struttura è ben definita, nero su bianco. Eppure il fumetto resta imprendibile. È sotto osservazione da quando è entrato nella produzione industriale di immaginario, la sua fase ‘moderna’ ha più di cento anni, ma è ancora roba da alchimisti. È duro persino da definire.(22) Quelli che sanno bene come si smonta sono, in definitiva, solo quelli che sanno pure come si costruisce. Difficile che vi vengano in aiuto. Bisogna farsi strada da soli e lasciare i pezzi in giro per ritrovarli poi quando sarà necessario rimetterli a posto.
Possiamo partire da qualche parte, da un mattone non scelto a caso, per tirare giù tutta la struttura. Scott McCloud, è l’autore di un fortunato testo(23) sulla narrativa disegnata, un libro che sperimenta la scrittura di un saggio (nordamericano) a fumetti, un’opera che riesce a proporre la discussione sul media ad un lettore generico di fumetti come ad uno specialista, mantenendo la chiarezza, attraverso segno e testo il più iconici possibile, in un sistema di rimandi e di interpretazioni a più strati di lettura. Un saggio che proprio per la sua forma ha avuto ampia diffusione, ed influenza, fra gli autori di fumetti. McCloud ha scritto questa definizione per la parola fumetto: “immagini e altre figure giustapposte in una deliberata sequenza con lo scopo di comunicare informazioni e/o produrre una reazione estetica nel lettore”.
Le immagini di cui si compone il fumetto sono piuttosto particolari. Più che rappresentare significano, sono scritte oltre che disegnate, nel senso che sono portatrici di parole oltre che di figure. Sono simboli in cui il linguaggio si territorializza, oggetti significanti da disporre sulla scena della narrazione. Anche in questo senso lo spazio del fumetto è uno spazio teatrale, assonometrico, capace di evocazioni in un luogo ridotto. Per costruire un fumetto utilizzando tecniche di disegno automatico, come già è possibile per un progetto d’architettura, potremmo disporre non già di linee ma piuttosto di un vocabolario di immagini iconiche utile a comporre le vignette, le finestre del fumetto. Siamo certo consapevoli di quanto questa sia una suggestione estrema, sappiamo che il segno è sempre portatore di significato e di soggettività, di stile, incide sulla storia, l’autore è nei segni che porta. Eppure ragionando su queste immagini base come elementi micronarrativi, è possibile riconoscerle come icone che attivano un uso. Veri e propri oggetti narranti, generatori dei rituali di realtà del fumetto.
Gli oggetti che vengono rappresentati devono essere dotati di maniglie linguistiche che permettano di afferrarli(24), di comprendere cosa significano e perché si trovano proprio in quel punto anche ad uno sguardo veloce. Lo sguardo che osserva un fumetto è sempre disattento, distratto. Non perché non sia concentrato sulla visione, ma perché questa conduce verso una progressione dinamica di sguardi, sottintende un continuum temporale in cui ogni elemento è inserito. Ogni immagine è solo ponte verso la successiva per la definizione della storia. Ogni segno sta lì apposta per distrarre lo sguardo, per portarlo ancora da un’altra parte.
Le altre figure di cui parla McCloud sono gli ideogrammi o le lettere, le parti di testo, presenti nelle vignette. Anche qui in realtà si tratta di parti scritte o simboli che hanno alcune proprie necessità formali. Una parola o una lettera disegnate in un fumetto trasmettono informazioni ulteriori rispetto al significato, possono indicare il tono della voce come una infinità di altri sottintesi dell’espressione. Il testo in un fumetto è segno e linguaggio.
Ma esistono anche esigenze di riduzione, di compressione del testo. Un lavoro di sezione sullo stile della narrazione. Si riducono al minimo gli elementi testuali in senso stretto, restano quelli quelli che non possano essere trasmessi dagli altri indicatori di senso che sono a disposizione, il taglio e il dettaglio di ogni vignetta. Il testo porta verso l’epifania dell’immagine compatta che la vignetta rappresenta, né più né meno che il disegno. Entrambi gli elementi hanno un valore iconico. Entrambi sono segno e parola, per questo non possiamo considerare il fumetto come una compresenza di due linguaggi, ma come un linguaggio a sé stante basato su di un sistema di segni espressivi iconici.
La giustapposizione delle parti finite, le vignette, definisce un percorso di navigazione per la costruzione di senso. Il fumetto è una struttura a finestre interconnesse, organizzate da una griglia, visibile o invisibile, che lavora sulla direzione della visione. Sulla capacità automatica che ha la percezione di stabilire connessioni. Questa è l’interfaccia della narrazione per immagini compatte. Una macchina che necessita di un impegno e di una partecipazione ad alto livello, che scorre senza farsi troppo notare. Il fumetto esiste proprio per via di questa interfaccia assente che genera significato nel vuoto dei segni. Non sono operazioni semplici quelle che un fumetto richiede alla mente: il modo di navigazione da una vignetta all’altra deve essere appreso ed è meglio farlo da piccoli, come dice Giromini.(25) È difficile che un lettore adulto si avvicini per la prima volta a questa forma narrativa disposto a mettersi al lavoro per riempire i buchi, i sottintesi che il fumetto lascia. E che sono esattamente le macchine che si attivano per trasformare un insieme di simboli ed icone in una intensa proiezione narrativa.
Il susseguirsi delle immagini determina il significato, tanto da spingere Will Eisner, celebre autore di fumetti, a considerare questo punto cruciale il carattere distintivo del fumetto. “Fumetto come Arte Sequenziale”(26), sostiene un suo testo. È una visione interessante, ma certo distintiva non solo del fumetto: la sequenzialità è stata ed è linea portante di una grande quantità di narrazioni. In alcuni casi è difficile (ma non impossibile) ipotizzare una via differente, chi vorrebbe conoscere l’assassino prima di aver letto un giallo?
Ma è poi una questione di linearità narrativa quella in discussione? Il rilievo dato alla sequenza c’è perché attivato dalla determinazione della direzione e del verso della navigazione. Due vignette qualsiasi giustapposte producono comunque senso, anche se non ne dovrebbero avere, anche se non sono in sequenza temporale o narrativa di alcun tipo. Se sono compresenti su di uno stesso piano la struttura mette in moto il meccanismo. E la struttura dice che se c’è un intervallo, un vuoto, fra due o più di due immagini compatte, quell’intervallo serve a costruire concatenamenti, obbliga alla connessione fra due o più unità base, le vignette. Allora, parafrasando Eisner, il Fumetto come Arte Connettiva? Abbiamo già discusso di come l’avanzare per connessioni sia forma degli ipertesti, del linguaggio tout court e del processo cognitivo in generale, questa definizione non sarebbe esclusiva, ma è un punto di vista che può tornare utile. Un allontanamento è necessario per leggere nuovi percorsi.
Lo stesso McCloud riconosce nella sua più recente opera(27) che la definizione di cui stiamo discutendo non riesce a spiegare le potenzialità di questo linguaggio e propone l’idea di “fumetto come mappa temporale”, più interessante ed essenziale. Anche in questa suggestione viene mantenuta al centro della narrazione la struttura sequenziale, la successione temporale fra le vignette, dato che, presente in una applicazione su carta del fumetto, una visione lineare, potrebbe essere non altrettanto determinato in una applicazione digitale. In effetti il fumetto è anche solo una mappa organizzata da un’interfaccia di navigazione e produzione di senso. Una mappa di flusso, dipendente dal tempo certamente ma in direzione tutt’altro che sequenziale, fitta di interruzioni e ritorni. Non l’accostamento temporale, la closure che propone McCloud, ma un altro tipo di giustapposizione, di vicinanza: l’articolazione, il concatenamento, all’interno di un sistema di funzioni. Questa è la tesi che propone Thierry Groensteen, e ci sembra molto centrata e ampia: “il fumetto è mettere in relazione una pluralità di immagini solidali”. Il legame che salda le immagini nella loro unità base della vignetta è una “solidarietà iconica”.(28) Con questa barca possiamo navigare più lontano.
Perché poi tutto questo si faccia, quale sia lo scopo di un fumetto, come dice McCloud, è forse una domanda troppo grande per essere infilata in una definizione. Perché Melville ha scritto Moby Dick? Perché Michelangelo ha dipinto il Giudizio? “Per produrre una reazione estetica e/o per comunicare informazioni”? No. Tutto ciò di cui si parla è irriducibile a qualsiasi comunicazione, diceva Deleuze nella conferenza sull’Atto della Creazione del 1987, tradotta recentemente in italiano nel numero 6 di “Mano”, la preziosa rivista di Stefano Ricci e Giovanna Anceschi. La comunicazione è la trasmissione di un insieme di parole d’ordine, le informazioni, e al di fuori di questo sistema non c’è comunicazione. In questo sta l’irriducibilità del linguaggio, non si parla solo per parole d’ordine, ma per dialetti che sfuggono alla disciplina. La società dell’informazione è la società del controllo. “L’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. L’opera d’arte non ha nulla a che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non contiene a rigore nessuna informazione. (…) L’arte è ciò che resiste”. Una percezione del tempo presente.
Non si crea per produrre una reazione estetica, “non si scrive perché si ha qualcosa da dire ma perché si ha voglia di dire qualcosa”.(29) Perché si desidera. “Questo sol m’arde e questo m’innamora”, se vogliamo scomodare ancora Buonarroti. Anche il lettore svolge una funzione narrativa e desiderante, non è un recettore inerte. Modifica e trasforma il pacchetto di informazioni, inserendolo nel suo piano di realtà. Compartecipa alla creazione in una maniera molto privata, in un rapporto d’intimità, a due a due, proprio per questo coinvolgente. Il lettore è impegnato a trasferire il segno nel mondo degli oggetti, confronta, collega, interpreta. Usa gli strumenti della narrazione che gli vengono consegnati, interagisce con questi attrezzi attraverso un’interfaccia che lavora su connessioni in assenza di segni. Costruisce un percorso individuale nella narrazione. Partecipa immersivamente al processo creativo.
Il fumetto è, da questo punto di vista, esattamente una forma di realtà virtuale.(30)
Non dobbiamo stupirci allora che questa struttura comunicativa a ‘finestre’ attraversi la produzione di multimedia ad ogni livello (dallo storyboard al disegno dell’interazione, dalle mappe dei flussi all’animazione) e si ponga come strumento forte di progettazione ed elaborazione ‘ipertestuale’. La sinergia strutturale fa immagini e testi che costruisce il linguaggio del fumetto trova un preciso ambito di applicazione fra le accoglienti pareti numerizzate della matrice. Alle volte questo rapporto acquista evidenza, altre volte sta sotto la sabbia, fra i bit. Diciamo che il meticcio fumetto resta sempre nello stesso posto, alle stesse condizioni di linguaggio e di uso, anche quando interseca i nuovi media. È capace di riconfigurazioni, lo conosciamo abile nell’adattarsi ad una mutata tecnologia di riferimento, un passaggio certamente avvenuto, e più volte, nella storia del sistema fumetto.
Ma ancora, tutti i media che vengono da questo intersecati, anche in una fase di lavorazione, si fanno in qualche modo fumetto. Non si tratta di una convergenza. È una ibridazione, la lunga via di ogni meticcio. Il regime di segni del fumetto può contaminare scrittura musica cinema pittura architettura costituendo nuove entità che conservano in parte i caratteri dei propri generatori. Che appartengono e si allontanano. Siamo di fronte ad un bastardo che ha rubato a tutti e sa farsi intendere da tutti, possiamo anche smettere di parlarne.

Note

21 Nel tagliente articolo di Umberto Eco, Quattro modi di parlare di fumetti, su https://www.fucinemute.it/1999/10/quattro-modi-di-parlare-di-fumetti/ vengono delineate quattro tipologie di saggi sul fumetto, ognuna ricca di innumerevoli esiti.
22 Attendiamo la traduzione italiana del libro di T. Groensteen, Système de la bande dessinée, Parigi 1999.
23 Un testo fortunato e controverso: S. McCloud, Capire il fumetto, l’Arte Invisibile, Torino 1996; trad. it. L. Rizzi.
24 W. Eisner, Graphic Storytelling, Tamarac 1996; pag. 17, “images as narrative tools”, immagini come strumenti narrativi.
25 F. Giromini, Intervista al Pepeverde, riportata nell’editoriale di “Blue” n. 105, Roma, febbraio 2000.
26 W. Eisner, Comics and Sequential Art, Princetown 1992.
27 S. McCloud, Reinventare il Fumetto, Immaginazione e Tecnologia rivoluzionano una forma artistica, Torino 2001; trad. it. G. Vogliotti.
28 Questa è una nostra riduzione di quanto Groensteen sostiene nell’introduzione al saggio Système, cit., in corsivo le parole dell’autore.
29 E.M. Cioran, Squartamento, Milano 1981.
30 È la tesi illustrata anche da G. Frezza, Fumetti, anime del visibile, Roma 1999; pagg. 11-23: “il fumetto appare un poderoso prototipo dell’interattività multimediale. Gli è infatti inerente la nozione di interfaccia… una sorta di consolle di comando operativo che consente al lettore di definire e attuare un testo”.

1.6. La direzione della visione: concatenamenti temporali

11.40. Se si guarda bene in una direzione, si vedono anche tutte le altre direzioni.

Di cosa parliamo quando parliamo di animazione. Forse è cominciata con le forme che assume l’ombra di una mano su di una parete. La distanza fra ciò che c’è e ciò che scrutiamo di notte. Anima. Credo che si tratti di qualcosa di grosso. Roba che scotta. Storie di immortalità, patti col diavolo e via discutendo. C’è un antica parabola ebraica narrata a lungo. Una delle versioni racconta di Rabbi Löw e del suo informe di creta per le buie vie di Praga. È la storia del Golem un pupazzone animato che dà un po’ di problemi alla vecchia città. Una storia, una fiaba, che è stata ed è continuamente riscritta.
Elémire Zolla, nella introduzione alla prima edizione italiana (1966) de Il Golem di Meyrink, riporta di un rituale dei cabalisti medievali: “al termine della prima parte del rito veniva ‘creato il golem’, ovvero si accedeva alle soglie del mondo informale, degli embrioni, delle virtualità, ossia per usare la terminologia scolastica si giungeva alla congiunzione dell’intelletto attivo e dell’intelletto possibile. Poi si compiva lo stesso rito all’inverso, riportando il golem al suo fango, cioè, facendo calare nella manifestazione lo spirito, santificandola, oppure liberando lo spirito dai limiti della manifestazione”. Meyrink fa cenno, nel corso della sua narrazione, alle antiche disavventure di Rabbi Löw per poi raccontarci quello che accadde dopo l’affare col pupazzo. Qui viene il bello: pare che lo stesso rabbino poi “sia stato invitato alla cittadella dell’imperatore per evocare, rendere visibili, le ombre dei trapassati”.(31) Per farlo, continua Meyrink, si afferma che sia ricorso ad una lanterna magica. Rabbi Löw era un animatore.
L’animazione viene prima del cinema. Le prime lanterne magiche che si ricordano hanno circa un migliaio di anni, e si continuano ad usare per proiettare diapositive. Era una tecnologia che si avvaleva di immagini dipinte su pergamene, disegni che facevano ombra. All’inizio sagome annerite, poi disegni molto stilizzati, da proiettare in sequenza. Quando balenò agli albori del secolo scorso la nuovissima macchina dei Lumiére prevalse su tutti i marchingegni che fino ad allora si erano usati in occidente per far muovere le ombre. Aveva una caratteristica essenziale che ne ha decretato la fortuna: poteva riprodurre il movimento con una lunga durata.(32) Lunga quanto la pellicola che si usava e profonda molto più del supporto trasparente di cui si faceva uso.
Così il desiderio di animare le figure si andò ad incollare su questa nuova superficie e, per suo tramite, sulla macchina capace di proiettare fotoni sui bastoncelli e i coni dei nostri occhi. L’invenzione del cinematografo: “il capitalismo e le sue tecnologie introducono il movimento e il tempo nelle immagini, e viceversa”.(33) In effetti da allora in avanti non sarà più possibile separare le immagini dalla produzione di massa e dalla percezione collettiva. Fino alle estreme conseguenze, fino a che guardare diviene produrre plusvalore. Ovvero lavorare.
Il meccanismo prende l’avvio dai limiti visivi del testimone, dalla velocità d’aggiornamento della retina ma non si basa assolutamente su questi: si tratta, come per ogni forma di illusionismo, di mettere in moto la formazione di connessioni di memoria e di linguaggio. Di favorire allucinazioni.
Vi è una quantità di immagini che sono percepite e una gran parte di queste non viene rilevata direttamente ai fini della produzione di senso, solo alcune, quelle che conservano una certa persistenza temporale o quelle che svolgono la funzione di insegna e di simbolo segnico, vengono considerate nel succedersi veloce. Così una serie di informazioni vengono assorbite allontanandole dalla consapevolezza, mentre altre vengono invece prese in considerazione per la costruzione della storia, del movimento. In questa contrazione dell’ambiente di immagini si costruisce innanzitutto uno schema della rappresentazione del movimento, ma non è ancora la definizione del piano di realtà, diciamo che è il primo passaggio di sintesi della percezione. È uno schema in mutazione continua, che viene aggiornato corretto e direzionato.
È possibile che una parte di queste informazioni acquisite si perda nel determinare la direzione e che alcune prendano invece un maggiore spazio nella mente, che si dilatino ritardando il procedere veloce degli stimoli visivi. La durata costruisce la narrazione. In questa seconda fase siamo impegnati, come sostiene Bergson, a “convertire una rappresentazione schematica, i cui diversi elementi si compenetrano fra loro, in una rappresentazione immaginata le cui parti si giustappongono”. Non è possibile tornare a controllare e riconsiderare ciò che si sta vedendo, a patto di non interrompere il flusso di significazione. Il cinema è lavoro espresso dalla memoria.
L’animazione fa uso di un particolare tipo di immagini, le immagini iconiche che abbiamo già visto in azione nel regime di segni del fumetto. Sono immagini già di sintesi segnica, di riduzione, che si inseriscono direttamente in un punto avanzato di questa catena di produzione narrativa. Per loro tramite muta il modo di costruzione del diagramma del movimento e si richiede un lavoro di percezione(34), di memoria e di immaginazione di diversa qualità. Sono immagini-insegna che devono essere personificate, oggettualizzate. Immagini che richiedono i processi di linguaggio e di significato, già analizzati nei capitoli precedenti, per essere comprese e posizionate. Ancora una volta torniamo ad uno schema di costruzione di realtà virtuale, potenziale, che richiede una interfaccia di linguaggio per essere attivata.
Esistono tuttavia differenze nella permanenza delle immagini, e sono legate al ritorno ed alla durata, ovvero alle possibilità di uso del media. L’uno, legato alla forma libro/giornale e alle modalità di interazione che questa forma prevede, avanza lentamente per fermo immagine, con una lettura per salti e per dettagli, costruendo un sistema di conferme e di ritorni, un dispositivo reticolare che mostra fin dall’inizio tutta la moltitudine dei suoi componenti, da elaborare individualmente. L’altro media sospende le connessioni strumentali a favore di un lavoro, e di una interazione, tutta intellettuale, interamente basata sulla durata, sulla persistenza delle immagini e sulla successione istantanea di queste(35), sulla memoria e sul carattere collettivo della fruizione: la costruzione di senso passa attraverso la condivisione dell’esperienza, la creazione diventa atto di molteplicità. Per l’animazione, come per il cinema in generale, la successione delle immagini è vincolata: anche se possiamo tornare poi a correggere o orientare nuovamente il pacchetto di immagini tramite la forza della memoria esiste una direzione e perfino un verso. Non sarebbe un modo di contraddizione costruire una storia di continui ritorni indietro, ma equivarrebbe semplicemente ad ipotizzare un verso negativo.
Le differenze di funzionamento percettivo ed interpretativo fra le due forme nei loro meccanismi di narrazione appaiono così sostanziali da farli intendere come due distinte, ma in continua intersezione. L’una agisce sullo spazio l’altra sul tempo(36). Sono tanto specializzate che inserire i meccanismi dell’una nell’altra provoca una deterritorializzazione(37) che il lettore immediatamente nota (i meravigliosi macchinari trans-linguaggio attivati da Tex Avery o Chuck Jones, per esempio: ricordiamo il celebre cartone meta-narrativo Duck Amuck [dir. C. M. Jones, st: M. Maltese; WB 28/2/1953] in cui comparivano, come se fosse saltata la pellicola, più fotogrammi contigui nella stessa inquadratura; nessuno sarebbe disposto ad accettare la duplicazione del personaggio sullo schermo, considerando invece questo dato come una interruzione del flusso, mentre lo stesso dato in un fumetto è la rappresentazione del flusso, più vignette in una pagina mostrano agire il personaggio. Jones in questo caso sovrapponeva le due strutture e faceva animare indipendentemente, e nello stesso luogo e allo stesso tempo, i due pupazzi mandando in crisi la struttura interpretativa e scatenando il riso).
Dal punto di vista della definizione di McCloud le immagini-fumetto e le immagini-animazione sembrano separarsi solo per il ritmo più o meno serrato del loro susseguirsi, mentre ora possiamo dire che le prime evidenziano la mappa spaziale dei flussi di segni e le seconde svolgono il proprio lavoro attraverso il lavoro di elaborazione temporale della memoria. Come ebbe a dire Raul Ruiz: “il fumetto funziona realmente a partire da relazioni spaziali tra le immagini, cosa che la sua stilizzazione favorisce del resto grandemente. Al cinema la dimensione del tempo […] distrugge tutti questi rapporti che esistono solo sulla carta”.(38) Due forme di lavoro intellettuale diverse che richiedono interfacce d’uso e linguaggio separate.
Vi è poi una terza forma per le ombre in movimento, la forma video, che è sicuramente più prensiva, più legata al mondo degli attrezzi e degli oggetti e, al contempo, meno parte di un processo sociale. Una forma che ci porta ad osservare direttamente la macchina che produce le immagini, per la prima volta, e secondo una modalità dipendente direttamente dalla tecnologia di composizione sullo schermo, niente più proiezione. Diventa parte del gioco il disegno della macchina che costruisce le immagini, macchina che si presenta alla nostra esperienza non più come proiettore di ombre, ma come distributore automatico di materia-immagine con cui interagire.
E la forma digitale? È certamente una forma di convergenza tra il fumetto e l’animazione (naturalmente non soltanto fra questi) che sta producendo un altro meticcio. I due ambienti narrativi hanno già avuto un momento di convergenza nelle produzioni dell’inizio del secolo scorso attraverso la condivisione di alcuni segni nelle differenti aree di tecnologia. Un salto che le nostre menti hanno già visto, e che presenta alcune analogie con quello che stiamo vivendo, pur se in tutt’altro quadro di riferimento e con altre potenzialità: le strade dei due linguaggi si sono incrociate proprio quando divenivano di produzione culturale di massa, con forme di riduzione e riproduzione che subivano profonde trasformazioni.
La forma attuale si basa questa volta su di un principio di accumulazione, di sovrapposizione dei materiali, in un copia-incolla di linguaggio uso e struttura. All’interno di un processo di coinvolgimento totale della società dell’informazione nel futuro dei media. Nell’animazione digitale si sta generando una sintesi numerizzata che deve essere ancora messa alla prova della narrazione fino in fondo. Il Golem avviluppo di fumo e nebbia in Meyrink si è trasfigurato nell’Aidoru (idolo) prodotto di simulazione e connessioni seriali in Gibson.(39) Ma quelle che vediamo sono ancora ombre.

Note

31 G. Meyrink, Il Golem, Milano 1991, trad. it. C. Mainoldi; pag. 37.
32 La pellicola di celluloide lunga, in grado di raccontare una storia, fu sperimentata per primo da Emile Reynaud nell’ottobre del 1888, che disegnò direttamente sul supporto le animazioni di Un bon bock, per il suo Teatro Ottico.
33 M. Lazzarato, Videofilosofia, Roma 1996, pag. 50.
34 L. Manovich, The Labor of Perception: Electronic Art in Post-Industrial Society, presentato presso ISEA (International Symposium on Electronic Art), Helsinki, 1994, (http://manovich.net/index.php/projects/the-labor-of-perception). Lev Manovich è l’autore di The Language of New Media, MIT Press, 2001, testo che elabora una teoria sui linguaggi dei nuovi media, intesi come una conversione di tutti i media esistenti in dati numerici accessibili tramite computer, pag. 49.
35 A. Gaudreault, Dal letterario al filmico, Torino 2000, trad. it. D. Buzzolan; pag. 54: “Lo spettatore cinematografico non prova (…) la sensazione di essere collocato di fronte a una moltitudine di enunciati narrativi (di racconti) di primo livello che si accumulino pezzi dopo pezzo per dare luogo all’enunciato narrativo (al racconto) di secondo livello, il racconto filmico d’insieme”.
36 L. Manovich, The Language of New Media, op.cit.; il cinema diventa una particolare branca della pittura, la pittura nel tempo, pag. 308.
37 La deterritorializzazione è il movimento che sposta un oggetto dallo strato che occupa, lo dispone in uno stato in cui può riconfigurare i significati o procedere per ulteriori spostamenti. Questo concetto è elaborato nelle opere di Deleuze e Guattari (in Millepiani, Come farsi un corpo senz’organi? se ne determinano le modalità, i teoremi funzionali).
38 Citato in T. Groensteen, Storyboard. Dal cinema disegnato al fumetto, “Mano” n. 1, Bologna 1996; trad. it. A. Boschi.
39 W. Gibson, Aidoru, Milano 2000, trad. it. D. Zinoni.

1.7. La storia è il luogo: disegno e interazione

2.105. Tutto il mondo non è altro che un sogno.

Cosa sta succedendo? Esistono elementi che caratterizzano in una direzione propria l’animazione digitale? Esiste o esisterà un nuovo sistema, un nuovo regime di segni? Cos’è un cartone interattivo? Questo è un punto nodale di questo libro, quando qualcosa è sull’orlo di un possibile cambiamento e l’universo si contrae per espandersi di nuovo.
Il fumetto si basa sulle articolazioni di spazio-topia, sui rapporti fra i collegamenti delle unità base e l’animazione sul binomio direzione-tempo, sul lavoro della memoria. Nella realtà virtuale invece il funzionamento è connettivo, produce concatenamenti, definisce un luogo che non ha misure e non permette azioni ma interazioni. La narrazione può intessersi a partire da unità base che includono un tempo senza più direzione e un luogo senza più spazio. Un ambiente virtualmente tattile che possa costruire la storia attraversando le connessioni. Per passaggi molteplici e, in un intorno discreto, indeterminati, per derive.
Cosa è un video sulla rete? Introduce un nuovo sistema? No, se solo consente l’accesso ad una risorsa condivisa: invece di cercare l’oggetto che contiene il video si è alla ricerca direttamente della materia-immagine, ma una volta reperita, la fruizione e il lavoro intellettuale attivato saranno ancora gli stessi che si determinano di fronte ad un monitor e all’uso di un videoregistratore. Cosa elabora di specifico un fumetto digitale? Se resta definita la funzione di attraversamento, le relazioni canoniche messe in moto dal sistema fumetto, vignetta-click-vignetta, le novità dipendono certo dal supporto per le immagini, dalle loro qualità intrinseche e percettive, ma niente altro. Si è ancora all’interno del media. Per contro si disperde la prima fase della interpretazione di un testo che un fumetto consente, quella dello sguardo simultaneo, della decodificazione della mappa nel suo insieme. Certo resta un supporto più immediato da raggiungere, meno costoso da ottenere e produrre, ma questa è un’altra questione.
Se si analizza il processo in corso a partire dal punto di vista teorico e non (solo) dagli esiti attuali, la configurazione può cambiare sensibilmente.
Spazio: la distanza è morta, lo spazio è assente, le connessioni immediate. La disposizione sul piano delle unità base non dipende più dai processi di produzione materiali ma dal campo immateriale dello schermo, una area di relazione, proporzione non misura.
Direzione: non è più determinata una volta per tutte, ma scelta in un intorno discreto di possibilità progettate e continuamente implementate. È possibile nel corso della formazione narrativa il meccanismo di taglio, di percorrenza ricorsiva, la deriva, il movimento laterale.
Tempo: si duplica in un tempo attuale, della compresenza, tempo zero, che costruisce la percezione del sistema di relazioni attivato, e in un tempo processuale, delle connessioni, tempo uno, che sperimenta e attraversa, che costruisce la narrazione.
Durata: determinata di volta in volta e non più caratteristica intrinseca del media, può basarsi sulle funzioni relative al tempo delle immagini fisse e di quelle mosse, secondo una scelta di progetto dell’autore e di lavoro intellettivo del lettore.
Luogo: iperconfigurato per la definizione dei rituali di realtà, per la trasposizione di valori oggetto sulle immagini. Deve essere definito il quadro di riferimento e il regime di segni per attivare le relazioni.
Narrazione: non definita in un corpus ad albero, di distribuzione, ma rizomatica, che produce micronarrazioni, piccoli sistemi chiusi interconnessi in rete. Si aprono delle bolle narrative che possono essere punti reticolari o nodi speciali.
Autore: la narrazione si svolge per accumulazioni, per copia-e-incolla, la funzione autore si fa molteplice e condivisa, attraverso il codice dei collegamenti che può essere attivato. Il racconto diviene connettivo e collettivo.
Immagine: immagine-tempo e immagine-materia si fondono nelle immagini di sintesi. Le immagini numerizzate permettono la modificazione continua della trama, un processo-immagine di implementazione.
Azione: rappresentata e sintetizzata nel sistema delle interazioni, che consentono un’operatività diffusa in un ambiente di riferimento. Si sviluppano sistemi di interfaccia per accedere ai dati e interconnetterli, per intraprendere la cognizione e generare significato.
Percezione: individuale o microsociale, ma condivisa in rete, interrelata. Esige un sensibile lavoro intellettuale per trasformare e accedere all’interpretazione, ma costituisce un quadro di realtà virtuale. Chiavi indispensabili per attuare questo processo sono le immagini iconiche, che rimandano ad altre immagini. Le immagini compatte.
Riproduzione: diviene riduzione numerizzata, digitale, di un dato, questo garantisce l’equivalenza strutturale fra le parti e i modelli mediatici rappresentati. Un suono, un testo, un’immagine sono ridotti ad entità discrete trasmesse in sequenza binaria e ricomposte attraverso una mappa. Ancora una volta un atto processuale, modificabile e riscrivibile.
Non tutte queste caratteristiche sono create dal media digitale ma a questo accedono, possono accedere, tutte insieme. Allora la domanda è questa: se si costruisce una narrazione in cui tutte queste funzioni sono attivate il quadro di relazione che si determina costituisce un nuovo sistema? Si tratta di configurare un media di narrazione che trovi suoi percorsi di sviluppo, a partire dalle forme di cui ci stiamo occupando: fumetto e animazione. Ma non solo, si svilupperebbero di conseguenza i caratteri di uso di una storia, che potrebbe essere letta, guardata, ascoltata e usata, ma anche abitata, riscritta. E certamente giocata. La storia diviene il luogo da usare attraverso l’interazione, una struttura che costruisce significato al passaggio. Si tratta di capire se esistono e se sono utili in questo quadro gli strumenti operativi, gli attrezzi da usare, o se invece, per utilizzarne di esistenti, sarà necessario infrangere alcuni codici. Si tratta di capire su quali elementi dell’esperienza umana basare il progetto dell’interazione e il disegno strutturale e connettivo dell’interfaccia.
Esistono certamente alcune produzioni (giochi, fumetti, cartoni, ipertesti narrativi e ambienti interattivi) che sarà interessante studiare perché prefigurano questi caratteri, anche se non vediamo ancora un oggetto narrativo, digitale e discreto, che tenga in considerazione sistematicamente tutti questi elementi indagandone le potenzialità a fondo. In definitiva la rete è già tutto questo, ma la scala è assolutamente incommensurabile, inumana, a-narrativa. È necessario introdurre elementi di antropizzazione, di riduzione di scala, di riprogettazione. Possiamo sperare che saranno proprio le sperimentazioni degli autori di fumetti e di animazione a portare qualche indicazione e qualche apertura, ma in connessione con hackers matematici biologi narratori ed architetti. Questo programma necessita la condivisione, serve restare immersi nella moltitudine operante. Dobbiamo essere in grado di correre sulla lama e conoscerne l’affilatura.
Sarà necessario ancora una volta un esercizio di allontanamento, almeno, dalla virulenza del mercato che continua a proporre scambi falsamente innovativi. Che tende ad operare per sostituzione, per negazione, e non per molteplicità in questo linguaggio multilineare.

2.1. Connessioni

2.47. Il momento presente è uguale ad ogni altro momento decisivo ed ogni altro momento decisivo è simile al momento presente.

Tocca fare un po’ di navigazione ipermediale assistita. Serve il punto della situazione, intersecare alcune narrazioni che attraversano le funzioni narrative che abbiamo analizzato. Saranno prove d’autore, prodotti specifici, racconti interattivi, cibo per la mente. Qualche volta anche junk food. A chi non piacciono le patatine fritte? Ma prima un passo indietro.
All’inizio del secolo scorso l’introduzione del cinema provocò una mutazione radicale nel mondo delle immagini: si poneva il problema di rappresentare il tempo. L’elemento tempo era stato introdotto attraverso le nuove tecnologie di riproduzione insieme alla rivoluzione industriale e alle profonde modificazioni imposte dal capitale alla struttura sociale, allo scorrere della vita, d’ora in poi attraversata violentemente dal lavoro. Un punto di non ritorno.

  1. La fase iniziale della produzioni di immagini narranti è variamente collocata, per una accurata ricostruzione si può fare riferimento agli scritti di David Kunzle.(40) Anonimi disegni stampati che andavano costruendo l’unità base della narrazione per immagini, le vignette, esistevano all’inizio del seicento in Inghilterra.(41) La xilografia era la tecnica povera di riproduzione e, anche in funzione del progressivo degradarsi della tavola di legno nelle successive stampe, il segno che si affermava per questa forma di rappresentazione fu estremamente sintetico, lineare, un po’ per scelta e un po’ per forza. Già per la fine del settecento apparivano storie multiquadro in una tavola, si stabiliva la funzione di connessione fra le vignette per uno scopo narrativo (ad esempio James Gillray, John Bull’s Progress, 1793). La consapevolezza piena delle funzioni narrative si sviluppa nell’ottocento, anche con i fondamentali lavori di Rodolphe Töpffer, ma la fortuna della produzione a fumetti passa attraverso l’affermazione dei grandi mass-media di informazione, i giornali. I fumettisti diventano la chiave di volta per conquistare un pubblico sempre più ampio, sono parte della lotta fra le grandi corporazioni industriali (W. R. Hearst contro J. Pulitzer: il caso Yellow Kid, p.e.). Stiamo parlando del quarto potere del cittadino Kane(42), del controllo sulla società di massa.
    All’interno di questo sistema si inserivano anche alcune produzioni senza inserzioni testuali, fumetti muti, pensiamo al lavoro di Lothar Meggendorfer e Caran d’Ache che Gino Frezza(43) mette in rapporto a quello condotto da Marey e da Muybridge, la cronofotografia. Sono punti, interni al sistema fumetto, di convergenza con l’animazione di immagini poco fitte, a bassa frequenza di apparizione, prima dell’applicazione della macchina-cinema. Sappiamo che si è sviluppato poi, con una certa distinzione e originalità di caratteri, tutto un filone di fumetti muti(44) che ancora produce narrazioni di rilievo (pensiamo ai lavori di Francesca Ghermandi e di Massimo Mattioli, che stabiliscono col cartoon un rimando anche di linguaggio e di segni e La Mosca di Lewis Trondheim che nasce in fumetto e viene trasposta in cartone animato). Un ambiente che può essere utilizzato anche dagli animatori come terra di scambio, di riconversione della narrazione (e tra questi p.e. John Kricfalusi, che ha realizzato alcuni fumetti muti per la sua rivista “Comic Book”, con citazioni proprio di Meggendorfer, e in altro modo, Nicolas De Crécy con il suo Monsieur Fruit, un fumetto ma anche uno storyboard). O come struttura narrativa tout-court (l’opera del Professor Bad Trip Gianluca Lerici ad esempio o Gon di Masashi Tanaka, fino a L’uomo che Cammina di Jiro Taniguchi). L’intera opera di incisore di Frans Masereel, straordinario espressionista anarchico, è concentrata su questa modalità narrativa, in alcuni casi dichiaratamente evidenziata(45), condotta coscientemente nelle immagini, e nella critica, della produzione industriale.
  2. Una storia di queste convergenze deve passare anche per i linguaggi dell’arte, che non sono rimasti estranei all’irruzione del tempo: gli studi per Nudo che scende le scale o i 2 nudi: uno forte e uno veloce (1912) e l’opera esposta al Salon Des Indépendants di Duchamp introducono le linee cinematiche, tipiche del fumetto, nella rappresentazione, non senza scalpore. “Fu una convergenza nella mia mente di vari interessi fra cui il cinema, ancora alla sua infanzia, e la suddivisione [del movimento] in immagini statiche della cronofotografia di Marey (…) ho mantenuto solo le linee astratte corrispondenti a una ventina di diverse posizioni statiche [poste] in sequenza nel movimento di discesa”, ci dice Duchamp.(46) Linee che esploderanno nella produzione futurista, nella celebrazione delle macchine. Contatti significativi col sistema dell’arte avvengono agli inizi degli anni venti, prima di tutto nell’opera di Stuart Davis, il suo Lucky Strike del 1924, ma anche i precedenti del 1921 (sappiamo quanto i suoi quadri avranno poi influsso sul disegno dei fondali UPA e Warner, i cartoni degli anni cinquanta), “quando la società industriale occidentale ha cominciato a sostituire nel meccanismo delle merci riprodotte e serializzate, al posto dell’oggetto ingombrante, l’immagine standardizzata”.(47) Secondo Germano Celant(48) fondamentale in questa intersezione sarà ancora una volta l’influsso di Marcel Duchamp nel biennio 1957-1959 corrispondente alla pubblicazione e alla diffusione internazionale dei suoi lavori e scritti, nonché alla prima monografia sulla sua opera. La lettura di Duchamp condizionerà i lavori degli artisti nordamericani impegnati sul dibattito sull’astrazione e porterà alla celebre mostra del 1960 The Street, punto di partenza della Pop Art. Passaggi obbligati saranno Andy Warhol, Roy Lichtenstein e poi Keith Haring, nelle cui opere il fumetto, inteso come media, assume un ruolo iconizzante, non di struttura narrativa ma di costruzione di oggetti percettivi di massa.
  3. Nell’ottobre del 1909 “Life”, la popolare rivista americana pubblica un disegno, firmato Walker, che illustra un progetto molto particolare: 84 piani di grattacielo con una struttura di metallo, vere e proprie strips, strisce orizzontali della stessa misura, che contengono ciascuno una diversa configurazione spaziale, architettonica e sociale. Come sottolinea Rem Koolhaas “ogni sito dato ora può essere moltiplicato all’infinito per produrre la proliferazione di uno spazio di livelli chiamato Grattacielo”(49) quel disegno mostra l’edificio che diviene una catasta di vite private individuali. Un progetto di giustapposizioni. Disegnato come un fumetto e organizzato come un fumetto. Una struttura iconica che sarà sperimentata a Manhattan, come logo urbano e, alla luce di questo disegno, come teorema del vivere. “Coney Island è una Manhattan allo stato fetale”(50) dice ancora Koolhaas, mettendo in relazione le eclettiche strutture in ferro del parco giochi con la New York in trasformazione della fine dell’ottocento. Dreamland, la Terra del Sogno nel parco di Coney Island (vedi immagine pagg. 90-91) dove sono stati inventati tutti i LunaPark, è una forma di realtà virtuale in cui l’architettura si fa interfaccia, rituale di realtà per un impianto tecnologico. Come ogni parco tematico è una simulazione costruita per giustapposizioni che richiede un aggiornamento strutturale continuo, in una dialettica della distruzione, per formare e narrare una storia. È il luogo dove The Blue Dome of Creation è separata da The End of The World da un vuoto di 50 metri.(51) Come due vignette da una linea bianca. Capite bene, questo viaggio nelle vie dell’architettura ci porterebbe lontano: attraversa Hugh Ferriss e The Metropolis of Tomorrow passando per Gotham City, tra Frank Lloyd Wright e Alex Raymond, è nel Recueil di J.-N.-L. Durand e fra le esposizioni universali e i parchi tematici, nei grattacieli tensegrity di Buckminster Fuller o nella New Babylon di Constant e nelle bolle degli Archigram, giunge fino a Parigi nel parco de La Villette, tra Bernard Tschumi e gli OMA, passando per Celebration, Florida, e Duckburg di Carl Barks, per Piranesi e per la dark-Paperopoli di PiKappa. Appare sotto i nostri occhi un territorio troppo ampio per questa ricognizione a vista. È un viaggio che resta da fare.
  4. Tutte queste visioni si sviluppano nell’intersezione con la macchina-cinema, e certamente ci sarebbe molto da scavare nelle produzioni dell’inizio del novecento, quando si cercava di stabilire un nuovo linguaggio attraverso la sovrapposizione di differenti regimi di segni. Alcune strade sono state accennate e poi abbandonate, altre hanno dato forma alla struttura comunicativa, specializzandosi.(52) Il lavoro di Windsor McCay, lo studio della narrazione nella macchina della prospettiva e nei piani sequenza, si riversò nei suoi film animati per dare forma ad uno spettacolo di magia vaudeville che richiedeva l’interazione con il pubblico (p.e. Gertie the Dinosaur, 1914, girato a partire da disegni su carta con inserti fotografici animati). Le prime produzioni di Otto Messmer (i suoi lavori per Felix the Cat di Pat Sullivan) tentavano di suggerire una serie di eventi sonori e di salti narrativi per giustapposizione di forme di lettura, di visione, inserendo, prima dell’avvento del sonoro, i segni del fumetto nell’animazione. È un lungo processo quello che organizzerà il linguaggio dell’animazione, che continuamente si ridiscute, si deterritorializza. Sono lo straniamento, la dislocazione, gli strumenti in attività. Ricordate tutto quel mondo sospeso, visionario, denso di suggestioni temporali e narrative che il geniale George Herriman con Krazy Cat andava costruendo nella lontana Coconino County? Un mondo che ha aperto molte porte verso una lingua delle immagini con i suoi continui cambi di registro linguistico.
  5. Ci sono opere a fumetti recenti, le più interessanti, che muovono proprio dalla consapevolezza che alcune di queste biforcazioni possano ancora essere percorse ed indagate, e possano condurre molto vicino a noi. Chris Ware nei suoi Acme Novelty Books si lega strettamente alle prime tavole di Herriman, costruendo dei fumetti dotati di un’interfaccia molto complessa che costruisce una profondità ipertestuale della pagina in cui il molto grande e il molto piccolo formano una catena di connessioni a spirale. La stesura prende talvolta la forma della serie di fotogrammi(53), una cristallizzazione del tempo, talvolta l’elemento in evidenza è la riduzione iconica che stringe il piano narrativo, una visione di sintesi. Talvolta invece scavalca l’oggetto ed emerge nel piano di realtà, costringendoci a guardare attraverso le pagine, incantati, uno skyline urbano che si illumina contro la lampada del nostro tavolo. Il suo lavoro è sempre troppo lontano, troppo vicino.
    “Alla definizione di narrativa come descrizione di una sequenza di eventi, Spiegelman sostituisce la definizione medievale di Historia, ovvero suddivisione orizzontale di un edificio o fila di finestre contenenti immagini. La metafora architettonica conferisce al termine un’evidente profondità semantica”(54) che Spiegelman con il suo Maus, A Survivor’s Tale(55) (pubblicato fra il 1980 e il 1991, ma intrapreso fino dal 1972), mette alla prova in tutta la narrazione. Si tratta di un’opera a molti strati d’interferenza successivi, in una giustapposizione tra differenti piani di realtà e di tempo. La scrittura di Maus ha cambiato radicalmente il modo di pensare e di progettare il fumetto operando direttamente sui codici dell’interfaccia, intenzionalmente disposti su più piani interattivi, secondo un sistema di maschere successive, rappresentate e suggerite, che controllano il lavoro intellettuale. Art Spiegelman stesso ha poi definito una decodifica diagrammatica ed estremamente dettagliata del suo lavoro nel successivo The Complete Maus (CD-ROM, New York 1993), un lavoro di decostruzione nella forma multimediale di tutto il percorso del romanzo. Interessante non solo per il suo valore di documentazione, si tratta del primo esperimento di scrittura sulla scrittura a fumetti, ma per le modalità di uso del media introdotte: un processo di sintesi multipiano che continuamente permette di attraversare la struttura e la formazione dell’opera. Dallo schizzo alla vignetta, dal documento video al sonoro originale dell’intervista al padre, il protagonista del racconto.
    Ci sono casi di piccole intersezioni che svelano altre connessioni. Jim Woodring, autore dello stralunato Frank, viene invitato a ridisegnare gli ambienti e gli emoticon di un programma di chat per Microsoft (1998): il suo non può essere un intervento di ristrutturazione del software, papà Gates non paga per questo, si tratta di un’operazione di superficie, diciamo per rendere più appetibile un prodotto, eppure il risultato è significativo. Lo potete provare lasciando scorrere i dialoghi tra ‘veri’ personaggi e guardandoli online mentre si fanno racconto vignetta dopo vignetta: la struttura connettiva e il fluire del tempo diventano parte del regime dei segni del fumetto, i personaggi si fanno maschere, si confondono le funzioni autore e lettore.
    Il passaggio diretto dall’oralità alla scrittura tipico di una chat intercetta il sistema fumetto. Una sperimentazione su di una strada che continua ancora ad essere battuta e che può condurre ad abitare una chat: è il caso di Habbo Hotel (www.habbo.com), dove interagire senza limiti di posizione e tempo, come avvisa l’introduzione. E dove i fondali si fanno teatro urbano virtuale.
  6. Esistono ipertesti digitali che utilizzano il sistema del fumetto per costruire una storia, una mappa di navigazione, narrazioni che prevedono una altissima immedesimazione del lettore: sono i giochi di simulazione elettronici, i videogiochi.(56) La prima storia raccontata fu quella dell’invasione dallo spazio profondo, (e anche prima dell’iconico Space Invaders, Taito 1973, tatuato nelle memorie di ognuno di noi), poi è stata la volta degli esperimenti di narrazione interattiva,ambienti per adventure senza grafica, curati a volte da scrittori professionisti (p.e. Hitchiker’s Guide to the Galaxy di Douglas Adams,1984). Il rapporto fra azione determinata dai tempi della narrazione ed interazione che si sviluppa nella dinamica tra eventi sistema ed eventi utente è il nodo centrale per i giochi digitali(57) , un rapporto di esclusione reciproca: quando agisce la storia l’utente è spettatore, quando il giocatore è attivo è la storia a interrompere il suo flusso. Un primo tentativo di imbrigliare il meccanismo fu quello di ridurre al minimo le possibili variazioni di percorso col sistema delle animazioni a binario, a scelte obbligate (Dragon’s Lair e Space Aces di Don Bluth, 1983).
    Ma non sarà questa la strada che verrà intrapresa: nei giochi digitali la storia si va a delineare soprattutto secondo un processo personale di esplorazione della mappa e di navigazione nel database. La mappa grafica con oggetti era già in Pitfall (David Crane, Activision, 1979), ma il suo uso in Impossible Mission (Dennis Casswell, Epyx, 1984) fece spalancare gli occhi, almeno fino a che non iniziarono le produzioni della LucasFilm Games di George Lucas, il narratore di futuri da fiaba di Guerre Stellari (cui rimanda il celebre videogioco in grafica vettoriale del 1983). I primi esperimenti di navigazione con Labyrinth (1985), poi Maniac Mansion (1987, grafica a 16 colori e risoluzione 320_200 pixel) una vera storia grafica interattiva per la cui architettura fu studiato un software, il motore SCUMM (Script Creation Utility for Maniac Mansion) sviluppato da Aric Wilmunder e Ron Gilbert, che metteva in relazione diretta parole, immagini e sonoro. SCUMM permetteva l’esecuzione di diversi script in contemporanea, la gestione di suoni e di funzioni base codificate in ogni punto del gioco, e soprattutto memorizzava il succedersi delle interazioni.
    Si era in un racconto organizzato da una mappa con dei punti nodali, indispensabili da attraversare, ma si lasciava al lettore ampia libertà di spostamento fra gli ambienti e di scelta della sequenza temporale. La storia si faceva luogo, l’esperienza interattiva decideva la narrazione. A Maniac Mansion seguirono una dozzina di altri giochi a 256 colori (e fra questi fondamentali furono The Secret of Monkey Island e Sam and Max Hit the Road, con i disegni di Steve Purcell) che utilizzavano SCUMM e lo implementavano con nuove possibilità e funzioni: per lo streaming video (INSANE), per gestire nomi e posizioni di oggetti (FLEM) e per l’animazione dei personaggi (CYST) ed infine per rendere il sonoro interattivo (iMUSE, Interactive Music Streaming Engine, applicato in The Curse of Monkey Island, l’ultima produzione con motore SCUMM, adattato per la nuova piattaforma a 32 bit e per uno schermo di gioco di 640_470 pixel).
    Anche la storia del Golem, che questa volta prendeva il nome di Clayman (uomo d’argilla), doveva tornare nei videogiochi con una produzione firmata Steven Spielberg (Dream Works Interactive). The Neverhood (1996) è una storia basata sulla Bibbia, forte di un’animazione straordinaria diretta da Doug TenNapel, con i pupazzi e gli scenari di plastilina, e organizzata da una miriade di puzzle narrativi da risolvere per attraversarla, usando anche funzioni del sistema fumetto. Un dato interessante è che, grazie al video The Making of The Neverhood integrato nel gioco, conosciamo le fasi e le metodologie di progetto e realizzazione, il lavoro sulle immagini e sull’interazione. La creazione viene analizzata e si fa parte dell’opera, un riconoscimento d’arte solitamente non riservato ai videogiochi.
    Tutti queste produzioni dovevano molto ad una sperimentazione iniziata nel 1979 da due studenti alla Essex University in Inghilterra. Roy Trubshaw e Richard Bartle sviluppavano un programma chiamato Multi-User Dungeon, all’origine solo una serie di dislocazioni interconnesse in cui muoversi e chattare, cui poi si associò un database di stanze, oggetti, comandi, ambienti interattivi condivisi. Il MUD degli esordi è uno scenario solo testuale basato sulla condivisione in scrittura di alcuni segmenti di memoria per permettere la comunicazione tra persone che usano lo stesso software nello stesso tempo. Un ambiente di linguaggio che sviluppò essenzialmente due tipi: ludico o sociale. Realtà virtuale in modalità solo testo da attraversare in rete. Il Metaverso di Neal Stephenson(58) era un MUD urbanizzato e popolato di avatar, di simulacri umani, e per molto tempo è sembrato la più convincente rappresentazione del cyberspazio, come forma di realtà virtuale completamente immersiva. Ma la presa emotiva dell’ambiente MU* stava tutta nella capacità di proiezione di sé stessi nella maschera che si indossava, come scriveva Bartle, la cosa eccezionale non era essere in contatto con persone lontanissime, né di competere in gioco con veri umani piuttosto che con macchine, ma che sperimentavi la tua esistenza in un altro mondo.
    A questi ambienti si ispira una recente produzione di Will Wright, interessante per diverse ragioni: si tratta di The Sims (Maxis, 2000). Antecedente di questo gioco è stato Sim City (Will Wright, Maxis, 1988) che simulava la costruzione e l’amministrazione di una città intera, da osservare e modificare nello scorrere del tempo. The Sims è la simulazione di quanto avviene in un vicinato middle class, molto disciplinato, in cui la narrazione procede per il raggiungimento di obbiettivi di vita domestica e in cui la dimensione del lavoro sembrerebbe totalmente estraniata, allontanata. Ma attenzione, tutta la sim-casa è una bomba a tempo(59), tutto si guasta o richiede manutenzione, un tributo di tempo, ed il lavoro diviene la routine del vivere.
    Dunque non un Tamagotchi, l’iconico animaletto virtuale da far crescere tra i cristalli liquidi, ma un sistema sociale di sintesi, modificabile ed estremamente riconoscibile, in cui il giocatore possa controllare e disegnare ambienti personaggi e comportamenti, determinando lo scorrere del gioco. Tutti gli scambi verbali sono segnalati da linee di testo, se significativi per determinare interazioni specifiche che il giocatore deve condurre, o da nuvolette che contengono icone, se invece non immediatamente significanti ma indicativi di uno stato d’animo, di un’attitudine sociale e caratteriale dei personaggi,sotto la dichiarata influenza di McCloud(60). Ma, più che di una estensione del sistema fumetto si tratta di una riscrittura di una soap-opera in stile ‘cartoon’, una fiction che converte gli spettatori in autori, divinità fuori scala di questo piccolo terrario virtuale.
    …Playing God, giocare ad essere dio, interagendo con piccoli bot influenzati dalle scelte del narratore/giocatore e funzionali a segnare l’incedere nella storia. Questa riconciliazione automatizzata tra la narrazione e l’interazione è sempre più presente nella progettazione di giochi digitali(61). Si tratta di agenti intelligenti e certo non di caratteri virtuali autonomi(62), ancora marionette più che compagni di gioco, progettati proprio per fare da legante sintetico tra la sequenzialità del romanzo e la connettività del digitale. Resta da chiedersi se questa opposizione vada conciliata o invece se non si possa lavorare alla costruzione di mondi ludici immersivi, complessi, ma definitivamente non sequenziali. Luoghi e racconti ancora tutti da esplorare .
    Note

40 D. Kunzle, The History of Comic Strip, Berkeley 1973 (vol. I; The Early Comic Strip: narrative strips and picture stories in European broadsheet from c. 1450 to 1825) e 1990 (vol. II; The Nineteenth Century).
41 R. Sabin, Comics, Comix & Graphic Novels, London 1996.
42 O. Welles, Citizen Kane, USA 1941.
43 G. Frezza, Fumetti, anime del visibile, Roma 1999; pag. 53.
44 T. Groensteen, Histoire de la bande dessinée muette, 9ª Art, CNBDI, n. 2, Angoulême gennaio 1998, http://neuviemeart.citebd.org/spip.php?rubrique153.
45 F. Masereel, Grotesk Film, Berlino 1921, Torino 1996.
46 Citato in J. Gough-Cooper, J. Camont, Effemeridi su e intorno Marcel Duchamp e Rrose Sélavy, in AA.VV., Marcel Duchamp, Milano 1993; 18 Marzo 1912.
47 A. Bonito Oliva, Artoonia, in Artoon. L’influenza del fumetto nelle arti visive del XX secolo, Napoli 1989; pag. 22.
48 G. Celant, Artmakers, Milano 1984.
49 R. Koolhaas, Delirious New York, Rotterdam 1994; pag. 82: any given site can now be multiplied ad infinitum to produce the proliferation of floor space called Skyscraper.
50 R. Koolhaas, Delirious, op. cit.; pag. 30.
51 R. Koolhaas, Delirious, op. cit.; pag. 53.
52 Forme studiate a fondo in AA.VV., Desideri in forma di nuvole, cinema e fumetto, Pasian di Prato 1996.
53 Nella storia dal titolo The Indifferent Winter in Sparky’s Best Comics Stories, n. 4, 1994, Ware dispone 325 piccolissime vignette disegnate in bianco su nero, citando i primi esperimenti di animazione di Edison (ed altri tra il 1900 e il 1910), disegnati con il gesso su di una lavagna. La copertina presenta, tra l’altro, un suo disegno di un Felix The Cat ‘a la Messmer’.
54 O. Kennes, Note su la scrittura di Maus, Roma 1994; pag. 20.
55 A. Spiegelman, Maus, il racconto di un sopravvissuto, Milano 1989, 1992; trad. it. R. Carano.
56 Sulla storia e l’estetica dei giochi digitali segnaliamo il testo di S. Poole, Trigger Happy: the Inner Life of Video Games, Londra, 2000.
57 M. Eskelinen, The Gaming Situation, “Game Studies” #1, luglio 2001 (http://gamestudies.org/0101/eskelinen/).
58 N. Stephenson, Snow Crash, Milano 1995; trad. it. P. Bertante.
59 M.C.I. Feldman, Will Wright: Playing God e Q&A With Will Wright, marzo 2000, TechTV LLC: vivi da collezionista o da artista e te la caverai. Uno dei trucchi del gioco è che solo la produzione d’arte non si degrada ma acquisisce valore.
60 G. Frasca, The Sims: Grandmothers are cooler than trolls, “Game Studies” n°1, luglio 2001, (https://www.gamestudies.org/0101/frasca/).
61 S. Johnson, Wild Things, “Wired”, marzo 2002, https://www.wired.com/2002/03/aigames/; fra tutti questi giochi segnaliamo Black & White di Peter Molyneux (Lionhead, AI design R. Evans).
62 S. Bringsjord, Is It Possible to Build Dramatically Compelling Interactive Digital Entertainment (in the form, e.g., of computer games)?, “Game Studies” n°1, luglio 2001, (http://gamestudies.org/0101/bringsjord/).

2.2. Esperienze

2.41. Quando l’acqua è alta anche la barca sale.

C’è una grande quantità di cartoni in rete, uno spazio molto ampio in cui perdere la vista. Cercheremo di organizzare una visita guidata, molto parziale, molto scorretta. Alla ricerca di prefigurazioni più che di completezza.
John K., con il cartone d’esordio delle avventure di un chihuahua asthma-hound di nome Ren Höek e del gatto Stimpson J. Cat, meglio noti come Ren & Stimpy (Big House Blues,1991)(63), riparte da zero. Esperto in sentieri abbandonati, attraversa il Fleischer Bros. Alley, si sofferma nel Tex Avery Boulevard, fa grossi acquisti nel Bob Clampett Shopping Mall. Strade e luoghi del cartoon che la fredda democrazia post-bomba del dopoguerra aveva dichiarato chiuse. Ed infatti i suoi cartoni che riportano in vita il genere grottesco, dinamitardo e ricco di riferimenti sessuali, sono oggetto di immediata censura. Gli viene censurato il remake che curava, le New Adventures of Mighty Mouse, perde i diritti sulle sue prime creazioni, ma conserva la sua vecchia mappa di Cartoonia. Decide di dar vita ad una sua produzione e si avventura per la rete.
Quando nel 1997 avvia su www.spumco.com (lo studio Spumco di John Kricfalusi, Jim Smith, Lynne Naylor e Bob Camp nasce nel 1989) il suo sito diviene immediatamente un punto di riferimento: fumetti on line (Babysitting the Idiot Part 1, Goddamn George Liquor Show, Turtle Food Collector), brevi cartoni animati a puntate, con un piccolo giochino sado-interattivo prima dei titoli, articoli critici sui maestri degli anni venti, una enciclopedia delle produzioni Warner online, e una sezione di link che diventa rapidamente colossale e unico punto di riferimento per una esplorazione appassionata.
Nel frattempo, nella clandestinità della distribuzione dei fumetti, si riesce a leggere rare copie della sua rivista “Comic Book”. Insomma continua a lavorare esattamente come vuole. Il suo personaggio Jimmy The Idiot, vessato dal più che fascista George Liquor, non parla non capisce e si confronta col mondo riscrivendolo da zero. Con metodo. Non sfugge a Bjork che gli fa realizzare il videoclip di I wish you, e Jimmy finisce nella vasca con la cantante in mezzo alle bolle di sapone. Nel frattempo ha fatto scuola, ha messo in moto una macchina che ha riportato il cartone animato in uno stato di esuberante vitalità.
Ma ci sono altre cose interessanti. Una è che tutto il suo lavoro in realtà sposta il fuoco dell’osservazione: per progettare cartoni per il nuovo media si va a scavare nelle origini del cinema. Non un atteggiamento eclettico, ma una ricerca di linguaggio tra i modelli originari, quasi che si potesse imboccare una nuova biforcazione di una vecchia strada. Un’altra cosa importante è che i cartoni digitali di John K. sono vettoriali, sono portatori di un segno funzionale, numerizzato, che consente un tempo abbastanza ridotto nella registrazione in memoria del pacchetto di dati acquisiti in rete, e che può estendere le funzionalità delle immagini fino allo streaming audio. Un segno netto, colori piatti pensati per ampie campiture, segno che diviene uno standard tipologico, tuttora attivo.
Le prime animazioni in rete si basavano sull’aggiornamento continuo, una lettura di una sequenza di files (Graphic Image Files animati, GIF89), restavano molti vincoli per i grafici animati in vista del trasferimento di pacchetti-dati di piccola entità complessiva: la bassa risoluzione dell’immagine, il numero ridotto di fotogrammi al secondo, l’esclusione del sonoro. Si tratta di un primo lavoro di adeguamento del linguaggio, una palestra di sintesi e di riduzione di segni, che attraversò ad esempio i primi lavori ospitati da Alt-X e fra questi il Grammatron di Mark America, un cut up di sperimentazione ipertestuale che faceva largo uso proprio di gif animate. In WonderPark (1997) e Bye bye WonderPark (1998), le produzioni su CD-ROM sviluppate all’interno del sistema di sviluppo multimediale ToolBook cui lavorai con il team della Lynx, ci trovammo a sperimentare animazioni interattive dei personaggi basate su di un numero ridottissimo di fotogrammi, come delle gif animate, dei pulsanti interattivi.
Un altro sistema per mettere in moto alcuni elementi della pagina web era fare uso del DHTML (Dynamic Hypertext Markup Language), HTML dinamico. Un procedimento che, per mostrare elementi della pagina, implementa direttamente il codice con istruzioni sviluppate con la programmazione (Javascript) e dirette al browser, il programma di navigazione. Infine, una ulteriore possibilità consisteva nell’usare un altro linguaggio (Java) e metterlo in funzione con l’inserimento di un applet che trasmette le istruzioni direttamente al sistema operativo.(64) Una esplorazione intensiva delle possibilità del DHTML (e delle Java applets) è stata condotta dagli artisti di net.art e continua a produrre sviluppi notevoli ed interessanti.(65) Capaci di generare concatenazioni inaspettate, pensiamo per esempio a SOD, gioco/opera d’arte prodotto da jodi.org, che si rifà esplicitamente nell’interfaccia agli esperimenti dada di animazione di Man Ray ed usa una grafica suprematista, da videogioco delle origini che si contrappone all’opacità del sistema funzionale, delle regole dell’interazione. La suggestione dell’unità base delle immagini numerizzate, il pixel, resta forte ma da questo momento non è più un vincolo, diviene invece una scelta di linguaggio, si utilizza per comunicare.
Il meccanismo di integrazione fra browser e applet si andò poi specializzando nel corso degli anni novanta con la creazione di innumerevoli frammenti di software, i plug-in, che permettevano la decodifica e l’integrazione in un file HTML delle più diverse forme multimediali. Questi elementi dovevano essere prelevati in rete e, appunto, inseriti all’interno del browser. Sono i plug-in a consentire la compressione e la trasmissione immediata (streaming) di particolari configurazioni di dati e a permettere, in questo modo, ai primi video di animazione di raggiungere i nostri computer.
Dal 1996 uno di questi plug-in a vocazione vettoriale (Animator player poi divenuto Shockwave Flash player) fu adottato da Microsoft Network per il design del proprio sito, un’interfaccia a simulazione televisiva, atto che decretò la fortuna dei software cui era connesso (Director e Flash), prodotti per l’interazione e l’animazione che analizzeremo più avanti. Si percepisce rapidamente che con le tecnologie vettoriali si rende possibile il transfert dei cartoni sulla rete, anche se si tende a tenere separata l’interazione dall’animazione, i giochi dagli short animati. Non è ancora chiara la possibile evoluzione del media e si utilizza la rete come amplificatore televisivo per un pubblico rinnovato, più consapevole, avido di storie animate irregolari e scorrette.
Prima Matt Groening (The Simpsons, il primo episodio è dell’aprile 1987), poi Ren & Stimpy di J. Kricfalusi (1991) e la diga si rompe: ancora una volta, come per Outcault, i network statunitensi considerano utile il fumetto e il cartone animato come strumento comunicativo di massa e nell’ottobre 1992 viene inaugurato dalla Turner Cartoon Network, il primo canale televisivo dedicato all’animazione. Nel 1993 debuttano su MTV Beavis & Butthead (eredi adulti dei Simpson) di Mike Judge e su Cartoon Network Two Stupid Dogs (Ren& Stimpy ‘style’) di Donovan Cook che mette al lavoro, assieme a Paul Rudish, due giovani art director, Craig McCracken e il suo amico Genndy Tartakovsky.
Questi tre giovani animatori, che hanno studiato al California Institute of the Arts in Valencia, cominciano a intuire nuove possibilità narrative e studiano un paio di serie che avranno un immediato successo e mostreranno un mondo dei cartoon sensibilmente mutato al finire del millennio: si tratta di Dexter’s Laboratory (supervisore Genndy Tartakovsky, 1996) e The Powerpuff Girls (supervisore Craig McCracken, 1998, in italiano Le Superchicche). Dichiarato punto di partenza sono le prime produzioni televisive della fine degli anni cinquanta: Hanna-Barbera e i cartoni UPA, soprattutto Rocky & Bullwinkle di Jay Ward (1959), l’animatore che aveva realizzato il primo cartone espressamente pensato per la televisione (Crusader Rabbit, 1950) con la sua Television Arts Productions, ma anche il mr Magoo di John Hubley (Ragtime Bear, 1949) e quello di Pete Burness (Oscar con When Magoo Flew, 1955, e Magoo’s Puddle Jumper, 1956), e certamente Tetsuwan Atom (Mighty Atom o Astro Boy, Mushi 1963) di Osamu Tezuka.
Ma gli influssi sul lavoro di Tartakovsy e McCracken sono ancora più ampi, come dichiarano essi stessi: Tintin di Hergè, The Spirit di Eisner, Krazy Kat di Herriman, mischiati con Godzilla, Ultraman ed il Batman televisivo degli anni sessanta, i Monty Python, il Reverendo Bob Dobbs(66) e Mon Oncle di Jacques Tati. Un patchwork così complesso da essere inestricabile: i segni rimandano ad altri segni e definiscono tutti i personaggi come immagini iconiche e, una volta che non rassomigliano a nulla nel mondo reale, somigliano di più ciò che si suppone che siano e quindi più a se stessi. (…) Cerchiamo di costruire il nostro universo, non lo basiamo sulla vita reale. Secondo gli standard Disney le Powerpuff Girls non sono animate affatto, mentre lo sono solo quanto è necessario. Un episodio(67) particolarmente brillante, tutto visto dal punto di vista (del personaggio) del Sindaco, lascia addirittura lo schermo nero per un paio di minuti, perché questi era bendato. Una animazione limitata contrapposta ad una animazione integrale.(68)
Doveva condividere questi punti di vista lo staff di Comedy Central diretto da Trey Parker e Matt Stone quando nel 1997 varava per un pubblico più orientato, meno trasversale, il politicamente scorretto South Park. L’animazione è interamente realizzata da un software di renderizzazione tridimensionale usato per disegnare un mondo piatto, completamente bidimensionale, che impone allo spettatore un profondo lavoro di ricomposizione ed interpretazione. Una limitazione imposta al flusso delle immagini per una animazione iconica, funzionale alla storia e all’universo narrato. È questa l’atmosfera in cui nascono personaggi e serie animate, che si diffondono rapide anche fra gli affamati occhi dei net-surfers, in breve tempo il panorama si allargherà, intere serie saranno programmate: è il momento in cui l’industria dot-com è in espansione e si cerca di attrarre nuovi segmenti di pubblico. I network aprono spazi in rete per presentare le vecchie e le nuove serie (Invader Zim di Jhonen Vasquez, per Nickelodeon, Samurai Jack di Genndy Tartakovsky per Cartoon Network e The Ripping Friends di John Kricfalusi/Spumco per Fox Kids, sono tra quelle inaugurate nel 2001, mentre si preparano innumerevoli episodi-pilota per le nuove produzioni).
Tutta questa vitalità è sempre interna a sistemi produttivi che si delineano, si approfondiscono, spesso senza una capacità di visione a lunga gittata. In questo senso la determinazione di ambiti separati fra animazione e gioco è esattamente l’identificare nella narrazione una categoria della merce, che produce videogiochi o serie televisive. In cui le intersezioni previste possono solo essere quelle della penetrazione nel mercato di questi o di quelle. Da un buon videogioco si potrà trarre un film, da un buon cartoon potremo cavare un gioco interattivo. Ma se si immagina qualcosa di diverso?
In rete si sono inaugurate alcune produzioni autoctone, ancora una volta basate su di un mondo piatto, e che fanno uso della tecnologia Flash. Da un lato abbiamo alcune serie animate che si stabiliscono solo su questo territorio: nel 2000 abbiamo visto Kozik’s Inferno di Frank Kozik, l’illustratore avant-pop della scena di San Francisco: si tratta di una serie on line prodotta assieme a molte altre da Wild Brain, prolifico studio costituito nel 1994 da Jeff Fino, Phil Robinson e John Hays. Un altro evento sono stati i sei episodi cinico-romantici dello Stain Boy di Tim Burton con Flinch Studio (su Shockwave.com), evoluzione animata dei limericks di The Melancholy Death of Oyster Boy(69) e delle atmosfere di The Nightmare Before Christmas di Burton e Henry Selick (Skellington,1993). Anche Jim Woodring ha prodotto qualcosa (Whimgrinder); e Darrel Van Clitters (Renegade Animation) ha lanciato il suo Elmo Aardvark come se fosse il remake di un antico comix (operazione immaginata anche da Keith Feinberg con il suo Bulbo per MishMashMedia). Aspettiamo ancora nuove prove dalla Spumco (fra le ultime animazioni, Fuck Her Gently diretta dall’emergente Gabe Swarr). In Italia Bruno Bozzetto sta disegnando alcune brevi animazioni in Flash (p.e. Storia del mondo per chi ha fretta, su castellianimati.com, e soprattutto la serie iconica di Tony & Maria su futurefilmfestival.com, 2001). Ed anche il maestro David Lynch ha creato, disegnando e recitando, una serie di animazioni per la rete: Dumbland, tratto grezzo e spazio urbano minimale da Paperopoli deviante, una terra molto più reale che Coconino o Dreamland. Dobbiamo includere in questa area anche le animazioni interattive che, pur non discutendo la sequenzialità della narrazione, lasciano che sia lo spettatore a decidere lo scorrere del tempo: i cartoni cinici, splatter e molto noti di Joe Cartoon (Live and let Dive p.e., ma ne ha prodotti moltissimi, Three Drunk Flies è su Atom Films, il sito di cartoni di Shockwave); e alcune delle produzioni postmoderne della JibJab Media degli Spiridellis Bros.
Ma c’è anche un lato più oscuro che sta lavorando, che cerca la porta giusta da spalancare. È questa la zona calda da cui sta emergendo il media che abbiamo tentato di prefigurare nella prima parte di questo libro, l’area sensibile della nostra esplorazione. Intendiamo quelle animazioni che misurano la narrazione con l’uso, con l’interazione. Una definizione territoriale di quest’area è tentata dai festival di cinema e animazione che ora, oltre a stabilire una sezione web, propongono una sezione di animutations, di cartoni mutanti (secondo la classificazione proposta da “Exploding Cinema, the Cinema Online: Animutations” all’IFFR 2001, ma potremmo forse più genericamente definirli Net.films, come nella mostra organizzata nel marzo 2002 a New York The Ides of March(70)). Gli autori provengono da più aree culturali, transnazionali, ma nella gran parte utilizzano questa animazione limitata e iconica di cui abbiamo individuato le origini. Né dobbiamo pensare che si tratti esclusivamente di un’area sperimentale, molti progetti si sviluppano assieme a processi economici di un certo rilievo. Nel caso dei lavoro sui Gorillaz disegnati da Jamie Hewlett, l’autore di Tank Girl, la connessione con lo show-biz, con le produzioni musicali, si è rivelata elemento prezioso per un’operazione di realtà virtuale basata sul sistema fumetto: quello che si vende è un pacchetto complesso di rimandi da un media all’altro. La sezione in rete del progetto è composta di un paio di siti principalmente: uno di animazione interattiva che permette di esplorare il mondo di questa band fantasma, con intrusioni simulate nei computer del gruppo, e poi un fanclub che rafforza il piano di esistenza dei personaggi, fa da ponte con il pubblico vero, inserendo un piano intermedio di realtà. Un terzo è nascosto e vi si può accedere solo attraverso un link interno al disco, l’oggetto reale, la merce alla fine della catena, come regalo a chi ha saputo penetrare fino in fondo questo mondo. Seguono gadget ed altre espansioni promozionali. La Bullseye Art di Josh Kimberg e Nick Cogan, animatore che ha studiato da Disney, ha differenziato le sue produzioni: da un lato contenuti creati per i media tradizionali, dall’altro una vasta serie di produzioni digitali, in un processo di sviluppo studiato appositamente, broadcastFlash, che permette una alta qualità delle immagini anche quando una produzione video televisiva dovesse essere ‘tradotta’ per il web o per la trasmissione via cavo. Una convergenza significativa tra i media elaborata con metodo (i primi lavori sono del 1997) per animazioni multipiattaforma che intercetta le questioni di linguaggio e quelle di mercato. Nella sezione Interactive di BullseyeArt.com troviamo alcuni esperimenti interessanti, Happy Homemaker, The Cave, The Woodcutter, che costruiscono in sistema di narrazione basato sulle deviazioni di una mappa più che sulla sequenza. Una sperimentazione aperta. Altro punto di transito inevitabile è The Locomotion Channel, la televisione latino-americana entrata dal 1999 sotto il controllo di Hearst Entertainment e consociata per la musica ad ArtistDirect.com: è un network che si basa su di una programmazione interamente dedicata all’animazione per un pubblico adulto e che per ora, diretto da Walter Zamora, continua a mantenere un forte spirito sperimentale e contenuti indipendenti (Hi Tech & Human Touch è il nome di una sezione e quasi uno slogan). Su www.locomotion.com appaiono i lavori di alcuni artisti molto interessanti: Robert Ramsden, autore che sta costruendo storie interattive e giocattoli digitali da attivare in CatchHenderson.com e FlyCasual.com, che qui disegna con il suo Teevey un mondo che sembra giungere al World Wide Web direttamente da Coconino County; Eddy Mort con Glyn Breeze e Peter Hansen per il Dr. Amoeba, il Dottore dell’Amore, in A to Z of Seduction, un sarcastico educational per latin-lovers; e ancora il magazine Acid Films curato da Yuki in cui c’è Sex (ep.1: Whips & Belts), interviste esplicite a sex-workers mediate da una animazione minimale. Ancora sul sesso il lavoro di Fayad Jafri (www.bam-b.com, online dal 1999) che definisce alcune possibili modalità di interazione nella narrazione attraverso inserti iconici e animazioni simboliche, un piccolo mondo plastificato, ma abitato da esseri veri che sudano e soffrono e provano piacere attraverso le loro superfici di sint-plastica. In Bam-b il nostro viaggio non è temporizzato ma determinato dalle interazioni che attiviamo attraverso icone che sono difficili da decodificare: inneschiamo un pulsante, attraversiamo una parte di storia e siamo partecipi dei suoi misteri. Meno sperimentale, ma molto divertente, l’ottimo lavoro dell’olandese Michiel Hoving (www. hoving.com), che racconta in rete una esplorazione del suo tavolo da disegno, delle sue carte di studio, e dà vita agli scarti della produzione (the Rejects), una integrazione con i mezzi classici dell’animazione fra micronarrazioni e mappa di navigazione. Le narrazioni legate ad una mappa di interazione sono state studiate in ambiti molto diversi, soprattutto da territori contigui all’arte. Un modo dinamico di navigazione basato su di una barra di scorrimento temporale e punti nodali è stato studiato da Aksis Team (L’éternaute, www.humano.com) per una produzione dedicata al capolavoro di Breccia/Oesterheld L’Eternauta. Anche Joey Bargsten in BadMindTime.com (Astonish Media) usa meccanismi interattivi di navigazione (p.e. Projekt Noir e Advanced Circus), secondo un sistema narrativo che richiama le sperimentazioni condotte già qualche anno fa lungo i sentieri della net.art da AntiRom.com o da SuperBad.com, pionieri dell’interazione in Flash. Nella stessa area si muove anche l’italiano Niko Stumpo di www.abnormalbehaviorchild.com, ben conosciuto in rete. Una ricerca che continua ad estendersi e che su rhizome.org o su thing.net è ben tracciata, con progetti complessi che riguardano le concatenazioni di frammenti interattivi e la ridefinizione della funzione autore. Cosa avviene se la sequenza non è più un dato ineludibile? Come organizziamo una storia? Quale grado di autonomia va al lettore/artefice? A questo proposito Darren Aronovski (suo il film Pigreco, metafora neokafkiana delle teorie di Turing e del mistero della macchina Enigma) ha deciso di esplorare la rete costruendo storie e ha realizzato non un trailer per il suo nuovo film, ma una narrazione per derive che suggerisce e intercetta diversi piani narrativi, una realizzazione sorprendente. Un esperimento che non va descritto, bisogna visitare www.requiemforadream.com. Marc Lafia risponde a modo suo alle domande che poniamo con AmbientMachine una macchina di montaggio che è uno studio sulla scrittura filmica in rete, attraverso una strumentazione che incide sulle caratteristiche delle immagini e permette ai naviganti di creare film che possono essere salvati sul sito, per formare un archivio riutilizzabile. È l’affermazione di una nuova modalità autore (www.ambientmachines.com). I-K-U si legge ai-ke-ju e vuol dire orgasmo in giapponese, è il titolo dell’ultimo film dell’artista Shu Lea Cheang. Ricordate Blade Runner? I-K-U parte da dove finiva Blade Runner, storie di replicanti e corporazioni (Genom Inc), corpi virtuali sesso e biotecnologia. I-K-U è un film che si sviluppa secondo modalità di net-surfing, attraverso un editing non lineare e con inserti di animazione digitale (creati dai vj di E-MALE, Takashima Hideo e Takimoto Kazuhiro). Arte sintetica, film, fumetto e rete in un unico oggetto progettato nei concatenamenti, percorso per derive. I-K-U descrive un’era in cui il business controlla il piacere personale ci dice Shu Lea Cheang. Frammenti di questo universo interamente visto da occhi di donna sono su www.i-k-u.com. C’è un’altra area, di autori giapponesi, rivolta allo studio di narrazioni interattive, che muove attraverso la frammentazione, la suddivisione, l’inquadratura di dettaglio, che costruisce la storia per connessioni e spazi vuoti. Ricordo uno dei lavori di Thoru Yamamoto, un sito assolutamente minimale che si chiamava Mole Hole (solo un file grafico e alcuni hyperlink per pagina), una esplorazione in un mondo sotterraneo che era anche uno dei primi lavori che vedevo sul fumetto in rete. Forse uno di quei tunnel di talpe avrebbe potuto condurre all’isola disegnata da Norimitsu Sekiya su www.haapa.com: una animazione fatta di segni semplificati, dobbiamo compiere piccolissime mosse per procedere intorno, in uno spazio che è un poco gioco un poco racconto. Un altro tunnel avrebbe potuto condurre nel caotico quaderno di schizzi virtuali di Takizawa Tohru (BeerHeads-Tonchinkan Station). Molto più complesse e sperimentali le prove di Torisu Koshiro, soprattutto il suo Anemic ver.1, un lavoro connesso in qualche modo alle esplorazioni cerebrali della BrainGirl di Marina Zurkow e alle intense animazioni di Motomichi Nakamura (Add Boiling Water su www.juvenilemedia.com e esplosioni splatter di segni iconici su www.qrime.com). Siamo trasportati in una storia completamente decostruita, navigabile come se stessimo ascoltando dei pezzi musicali, come un disco di micro-canzoni di John Zorn. Le animazioni di Naoki Mitsuse di Ultralight (Sex Slave, Francesca the Fruit Fly, Nuno) utilizzano alcune modalità narrative e di segno prese direttamente dai vecchi videogiochi, ricontestualizzati in una dimensione adulta. Un un linguaggio prossimo a quello di Mattew ‘Mafu’ Stevens (Mumbleboy), non giapponese solo per il passaporto, e di François Chalet, svizzero, due autori che operano in un’area di convergenza fra segni di diversa provenienza, una zona esplorata attentamente da un sito dedicato per intero al character design, www.pictoplasma.com. È un mondo che intreccia anche la vasta produzione di J.otto Seibold e Vivian Walsh, i creatori di Olive, the Other Reindeer (tradotto in cartone animato assieme a Matt Groening, Fox 1999), che curano in rete un sito sperimentale e divertente, ricco di macchine animate interattive e pupazzetti (www.jotto.com), lavoro che è ancora una sottile rilettura in chiave iconica dell’astrazione alla Stuart Davis. Questa lunga navigazione a vista si conclude su due lavori molto interni al sistema fumetto che tracciano linee di ricerca, mostrano alcune possibilità completamente aperte. Andrea ‘Andy War’ Guerra (www.digitalkomix.com) condivide con i suoi fan una scrivania carica di disegni fumetti e sperimentazioni narrative, rigorosamente no-copyright, invitandoci a richiedere tutti i codici sorgenti dei film che ci mostra. War, esperto della nobile arte dello streaming (troverete pochi preloader nelle sue animazioni flash), inizia a lavorare in rete nel 1999 con una lunga esperienza nei comix underground alle spalle, il suo archivio comprende una quantità sterminata di fumetti e vignette. I dispositivi animati di DigitalKomix attraversano sperimentalmente tutte le forme narrative fin qui discusse, un lavoro di ricerca sul media ed il suo linguaggio a 360 gradi. Dalla prima storia ad anello (The Bridge, 1999), animazioni interattive (Bomber-Z, 1999), fumetti digitali (S.H.E., 2000) e net-toons (Dura Mater, 2000), fino ai più recenti micro-teoremi mediatici (DeathDotCom e & Fame for All, 2001) che ricordano da vicino il lavoro minimale sui cicli testuali di Chang Young-Hae (Heavy Industries, www.yhchang.com).(71) Demian.5, da Zurigo Svizzera, studia una forma narrativa basata sul codice HTML, per ora refrattaria ai flashtoons, ricostruendo un sistema di rimandi fra le strutture della pagina web, e tenendo una forte struttura sequenziale. Si tratterebbe di un fumetto a tutti gli effetti se non fosse per l’articolazione temporale del racconto, che si svolge in una sorta di flipbook lineare, fotogramma per fotogramma, legato alla barra di scorrimento del frame. La sua storia When I Am King (www.demian5.com) sperimenta la forma multifinestra sul territorio digitale, lavorando in uno spazio iconico raffinato, con inserzioni di semplici gif animate, spazi che si espandono e si contraggono. Anche questo un esperimento open source, di grande interesse. Stay tuned. Anzi digi-tooned.
Note

63 Sulla storia di Kricfalusi e dei nuovi cartoons vedi: L. Celada, Gli eredi di Tom & Jerry, in Alias n. 35, “il manifesto”, 15 settembre 2001. Per le datazioni di questo capitolo facciamo in gran parte riferimento al lavoro on line di R. Llewellyn, Chronology of Animation, reperibile all’URL: http://www.public.iastate.edu/~rllew/andivots.html (ora https://www.animated-divots.net/chronst.html).
64 L’applet è un frammento software che dialoga con il browser e attraverso questo con la macchina virtuale di ‘traduzione’ (Java Virtual Machine) installata nel computer.
65 Ci riferiamo ad un’area di produzione creativa estremamente complessa e ricca, connessa all’Hacktivism, la scienza-arte-politica degli hackers (i viaggiatori irregolari della rete) che necessita una narrazione più ampia. Attendiamo la pubblicazione organica delle ricerche di M. Deseris e G. Marano per una osservazione integrata sul fenomeno Net.Art (ai tempi in gestazione, ora disponibile qui https://monoskop.org/images/7/71/Deseriis_Marco_Marano_Giuseppe_Net_art_L_arte_della_connessione.pdf).
66 Di cui il Professor Utonium, uno dei personaggi, è l’icona. A proposito del Rev. Bob vedi: The Subjesus, G.Slitta, Khiko, La Chiesa del Subgenius, La Spezia 1997.
67 The Powerpuff Girls, The Bare Facts, storyboard C. Morrow, art direction C. Kellman, direction J. McIntyre e C. McCracken.
68 R. Lloyd, Beyond Good and Evil, “L.A. Weekly Media”, November 24 – 30, 2000.
69 T. Burton, Morte Malinconica del Bambino Ostrica e altre storie, Torino 1997, trad. it. N. Orengo.
70 Miletic intende per Net.film qualunque pagina web che attiva un contenuto tramite un codice indipendentemente dall’interazione dello spettatore che continua ad esercitare il lavoro sulla memoria tipico delle opere cinematografiche. Si tratta di una struttura filmica recombinante residente per frammenti su di un server (http://bull.miletic.info/netfilm ora https://netfilm.as/). La sovrapponiamo a questa area con una certa forzatura ‘progettuale’ e immaginando cartoni recombinanti di là da venire.
71 Animazioni sviluppate in Flash sono state prodotte anche da Enrico D’Elia (sue le animazioni e i personaggi per Digital Delikatessen e Micronasa); Alfonso Florio, net-videomaker e sperimentatore digital-costruttivista, autore di una soap che sperimenta una possibile narrazione interattiva; online è il lavoro di Marco Bailone autore già noto per il suo Sint; le animazioni interattive di Marco Flore su character design di Emanuele Ragnisco; e nella sezione web dell’ultima edizione di Castelli Animati 2001 abbiamo visto Francesca Gambatesa (The Trap), Giuseppe Ferrario (I Tre Porcellini), Federico Panella (Alieni), e Marco Perugini (premiato per Orlando); premiato a Cartoons on the Bay 2002 il piccolo e velocissimo Taki di Alessandro Ferrari e Riccardo Palazzo. Inguine.net e Fucinemute.com hanno già iniziato incursioni transmediali e animate, e non tarderanno altri giovani lupi ad unirsi al banchetto.

3. Progetto e strumenti

3.1. Il processo schizo: il progetto dell’interazione

10.5. La ragione ha la forma di un angolo, sta seduta e non si muove. L’errore ha la forma rotonda e, incurante del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, non sta mai fermo, rotolando da una parte all’altra.

Tutti i nostri attraversamenti, le connessioni che abbiamo attivato fino ad ora sono state soggettive, scorrette. Alle volte casuali incontri, derive percettive, suggestioni. Sempre passioni, Zone Temporaneamente Mutanti. Ecco, il progetto è comunque questo, un atto mai stanziale. Il lavoro che si compie è solo raccontare gli attraversamenti, le soste, i percorsi, la ricostruzione di una geografia instabile.(72) Soprattutto gli errori, l’unica cosa che facciamo veramente bene e a modo nostro, la nostra traccia di stile.
Il progetto è nemico del metodo, è la mutazione, lo straniamento. La produzione attiene al metodo, è la suddivisione, la superimposizione. Il taglio, il montaggio restano un punto di controllo e sono funzione di questo. Ma la formazione del campo, l’accumulazione del materiale di lavoro è la parte affascinante, imprendibile, piena di vicoli ciechi zeppi di splendori nei bidoni all’angolo. Di interruzioni, di dubbi. Finché la storia non emerge, nella sua chiarezza, dobbiamo continuare a rimestare nel fango. Ricorda, i pesci non vivono in un’acqua troppo pulita.
Se abbiamo visto il mondo che abbiamo narrato fin qui, le connessioni e gli svolgimenti, se ne abbiamo percepito le suggestioni, si apre l’orizzonte della progettazione. È un’allucinazione febbrile, uno stato di follia, quello che Guattari definisce il processo schizo. La nostra visione operante si scolla dalla configurazione vigente delle cose, dallo stato dell’arte, ed è spinta verso una sua rappresentazione materiale, espressa nel suo tempo e nella sua società. Intercetterà le aree che ne determinano lo sviluppo, le tecnologie della produzione e il mercato, sarà soggetta a prove verifiche e disegni, dovrà essere tracciata, restando pronta, come L’Idea di Masereel(73), a volare via di nuovo. Ma un progetto resta in poche parole. Un progetto è un desiderio, e a volte un problema, formato nell’uso sociale di ciò che produrrà.
Desiderare è proiettare/progettare un’immagine, quando avviene che è “il processo stesso che produce la rappresentazione e non la rappresentazione che produce e controlla il processo”.(74) Una prefigurazione che diviene rappresentazione attraverso un percorso. Quando immaginiamo qualcosa sappiamo che ciò avviene in un dato ambiente, in un tempo. Abbiamo navigato fra le connessioni saltando alcuni punti e percorrendone altri fino in fondo. È una attività irripetibile, sempre contemporanea, sempre interconnessa. Capace di determinare pur non essendo in sé determinata. Alle volte può esserci un motivo, un punto di partenza, un problema da risolvere, ma è nel dispiegarsi delle connessioni che si forma il piano. In un tessuto sociale.
Le opere non hanno interesse se non possono essere utilizzate. Non stiamo parlando solo delle azioni che possiamo compiere facendo uso di strumenti, ma dei progetti che le opere potranno determinare dopo essere state disfatte. Quando si saranno fatte scarto, elemento portatore di una tipologia, ma disarmato dalla sua funzione. “Macchine di movimento che riconoscono lo scarto come ultimo elemento del processo di trasformazione della produzione industriale: ultimo elemento ma ancora capace di ulteriori mutazioni e cambiamenti di significato”.(75) Il cut up, il montaggio, il copia-e-incolla, sono la narrazione possibile nell’avvicendarsi dei narratori.
L’uso è parte del processo di definizione del progetto e l’interfaccia è il prodotto di questo processo. L’interfaccia è esattamente la parte del progetto che permetterà l’uso della risorsa, ed è un sistema stratificato di irruzione nell’oggetto. È il campo della infoarchitettura, la costruzione della città digitale in riferimento al linguaggio dei suoi abitanti. Non c’è nessuna utilità nel disegnare come una riproduzione dell’ambiente fisico questo spazio, non abbiamo bisogno di metafore e travestimenti ma di rituali di realtà, di passaggi di uso che costruiscano la realtà virtuale. Tutti i ragionamenti intorno all’usabilità non sono da immaginare come un insieme di normative e standard(76), ma come un atteggiamento progettuale consapevole. Uno spazio del linguaggio.
È un sistema che deve codificarsi socialmente se intende essere condiviso, essere connessione ancora. Senza finire in errore 404, un link morto. Questo è progettare per flussi e per attività, innescare concatenamenti riferendosi ad un intorno sociale. È un processo estroverso per necessità: si svolge in un tessuto sociale e si connette ad un intorno definito. Non è possibile progetto senza questa consapevolezza. Allora via la pelle dallo scheletro, bisogna studiare una rappresentazione che legga le connessioni e la reticolarità degli attraversamenti, che dispieghi i punti nodali, che mostri, smontandola, la superimposizione della logica gerarchica.
Solo in queste dinamiche il progetto potrà non essere determinato solo dalla produzione industriale, dalla tecnologia dominante, dal mercato. Farsi oggetto, senza farsi solamente merce. Non solo una questione etica, ma di funzionamento interno: un oggetto prodotto di concatenamenti può essere attivato anche in scrittura, può essere modificato ed entrare negli usi in forme molto diverse, potrà continuare ad esistere anche quando la sua funzione sarà esaurita. Non è esattamente il meccanismo di sostituzione che pretende il capitale, ma una forma di cooperazione, comunque economicamente strutturabile, come dimostrano in area digitale le avventure del sistema Linux. Rielaborazione è vita.
Il campo in cui il progetto digitale, e non solo quello, opera, è per la gran parte uno spazio retinico, virtuale. Va colto visivamente. E messo in relazione con gli altri strati dell’interfaccia, le parti solide, le macchine, e le parti di linguaggio, il regime dei segni. La conformazione del progetto è il punto centrale, come diviene forma su cui indirizzare l’azione. Quali sistemi di assicurazioni e disponibilità agli usi sceglie e rappresenta; come fa a comunicare l’informazione che detiene, o come può detournarla; in quale intorno sociale si dispone. Queste sono le domande che dobbiamo fare al nostro desiderio per trasformarlo in oggetto.
Nelle esperienze cui ho contribuito, un modo per innescare un processo d’uso per le interfacce progettate è stato spesso quello dello shock, della deterritorializzazione, dello straniamento. Se devi descrivere una cosa che non hai mai visto prima, quali sono gli elementi che prenderai in considerazione, quali concatenamenti attiverai per prefigurare un uso? Se invece l’oggetto è noto, preesistente, ma ne immagini una rappresentazione straniata? Non riusciamo forse così a rendere l’oggetto progetto?
Il progetto che si è fatto oggetto, che è stato prodotto, all’inizio della sua esistenza potrebbe non rimandare a nulla, restarsene muto a fissarci. La forma e la funzione seguono il linguaggio, il sistema connettivo. La vecchia storia di Pinocchio: il burattino di legno comincia a parlare se smettiamo di vederlo come un tronco, ma lo immaginiamo come bambino virtuale, in potenza. Se contribuiamo al progetto, alla formazione di senso, il pupazzo sarà bambino e parteciperemo ad un progetto che ha molti piani di fruizione e di influenza. Poi potrà avere diverse forme, naso lungo o corto, combinare guai.
Otterremo un sensibile vantaggio quando chi usa continua a progettare: si innesca la trasformazione dell’oggetto in utensile, strumento per compiere azioni. Per elaborare altri progetti. Questo significa anche che il lavoro intellettuale da compiere deve essere prevalentemente orientato alla elaborazione: se nemmeno riconosco il tronco di legno come pupazzo, con ancora maggiore difficoltà potrò immaginarlo come bambino. Forse alla lunga e spiegandomelo con calma sarà possibile che io ci creda, ma resterà fra me e l’oggetto uno scudo che impedisce la formazione di un linguaggio. Il desiderio di cancellare questo scudo determina il progetto dell’interazione.
Note

72 F. Iovino, Urban Race, Traiettorie Metropolitane, “Gomorra” (nuova serie) n. 2, Roma 2001.
73 F. Masereel, L’Idea, Leipzig 1927, Torino 1984.
74 F. Guattari, Desiderio e rivoluzione, a cura di P. Bertetto, Milano 1978.
75 SCIATTO produzie, Manifesto Sciatto, Roma 1990, www.ecn.org/sciattoproduzie/.
76 AA.VV., Web design e usabilità: un dibattito dal forum web di Mediamente, e-book, maggio 2001 (www.mediamente.rai.it) (ora su https://web.archive.org/web/20030212061244/http://www.mediamente.rai.it/divenirerete/010302/index.asp).

3.2. Icone e idoli: la maschera

10.121. Addentando il vuoto.

La progettazione per immagini compatte, per parti concluse e interconnesse, si sviluppa attraverso la formazione di micronarrazioni. Plug-in di significati. Esistono due possibilità per formare questi blocchi: una che usa elementi appartenenti ad un sistema e dislocando, riducendo e riproducendo, forma catene di significato interne a questo; ed un’altra, opposta, che sceglie uno stato di clandestinità e forma concatenamenti trasversali, attraversa il piano.
Nel fumetto, ad esempio, l’unità base micronarrativa è la vignetta. Nel progetto di un’interfaccia, l’unità base è l’icona. Intendiamo i pittogrammi, le immagini compatte che hanno già compiuto un processo di composizione, contengono i segni elementari che si rifanno ad un intorno e li utilizzano per affermare un significato. L’icona non è un “simbolo, un rinvio costante del segno al segno”(77), nè una rappresentazione metafisica, un idolo. È una piccola macchina di linguaggio che produce connessioni e azioni.(78) La progettazione di questa micronarrazione è un punto centrale nella produzione di significato dell’interfaccia.
I due ambiti, di segno e di significato, relativi a queste macchine muovono per due strade diverse e recombinanti. Le icone applicano al loro interno i processi di riduzione e riproduzione relativi alla rappresentazione di un’immagine. Il motore di linguaggio che attiva le macchine iconiche fa uso di strumenti retorici: si riconoscono icone che lavorano per metafora ed altre che lavorano per metonimia, secondo la riduzione a due categorie operata da Roman Jacobson(79). È una trama che costruisce linguaggio, che può riferirsi ad un ambito di volta in volta ristretto o ampio di interlocutori e certo determina una gerarchia fra chi fa uso dell’oggetto.
Ad un gruppo appartengono quelle frutto di un processo di riproduzione (ad esempio la porta onnipresente nei programmi per inviare fax, che rappresenta l’abbandono di un ambiente di lavoro) che si basano su di un rimando a dati materiali, sono metafore e dichiarano di rivolgersi a non competenti, in genere indicano intorni che non permettono processi progettuali; e quelle che provengono da un processo di riduzione (la X che indica chiusura di una finestra, interruzione di un uso), basate su di un rimando ad una interfaccia di segni, sono tipogrammi ed enti geometrici riservati agli specialisti, e determinano una sorta di via alchemica al software, una abilitazione al progetto.
In un altro gruppo sono le icone, e sono una grande parte, che hanno affrontato tutti e due questi processi, riduzione e riproduzione, e che fanno riferimento all’intorno in cui sono collocate, come i readymade rimandano a più originali, a più concatenamenti. Non direttamente ad un oggetto ma alla rappresentazione di un oggetto, non direttamente al segno, ma alla rappresentazione di quel segno. Tendono a rappresentare per metonimia il risultato dell’azione che permettono di compiere (per esempio la matita che indica lo scrivere). Sembrano le più democratiche, quelle che mostrano le proprie disponibilità. Alle volte proprio per questo sono composte di più elementi base giustapposti, accumulati l’uno sull’altro. Queste icone determinano una localizzazione delle risorse di linguaggio, una sorta di dialetto dei segni.
C’è ancora un altro tipo di icone che si basa su di una funzione delocalizzante, usa sempre riduzione e riproduzione, ma è volta al tradimento di quanto sembra rappresentare. Genera un cortocircuito fra la rappresentazione e l’azione, salta fuori dal piano su cui è posta. Facciamo un esempio. Tutte le icone sono governate dal potere della linea. Si fanno segno concluso, e caratterizzato. Usano come valore aggiunto il colore per evidenziare aspetti e parti, per definire livelli di attenzione percettiva. Come avviene per i segnali e le insegne, colore e tratto favoriscono l’identificazione della categoria di attribuzione. Uno stesso soggetto in un’icona (p.e. una tazza di caffè) tracciato diversamente può indicare diverse cose: un dato quantitativo (punto di un elenco nel menù di un ristorante: qui si fa anche il caffè), un dato qualitativo (una specialità: facciamo un caffè ottimo), una disponibilità d’uso (un simbolo su di una guida: qui c’è il bar) o una connessione delocalizzante (ponendosi in una diversa area significante, per esempio musicale: questa è roba che tiene svegli). Quest’ultimo caso impone un salto logico, un lavoro intellettivo più complesso, lavora sullo straniamento.
Si apre meglio la prospettiva: queste piccole macchine iconiche non sono solo macchine di significazione, ma sono anche dei modi per attribuire una appartenenza ad un intorno, delle maschere. È un dato che cambia sensibilmente il senso di questo discorso. Deleuze definisce la maschera “macchina di viseità”: un dispositivo che conforma la nostra appartenenza, che non serve a nascondere o svelare, non è una macchina di simulazione. La faccia è una superficie che non ha a che fare con “il volume-cavità proprio del corpo. La testa è compresa nel corpo, ma non il viso”.(80) Del nostro viso abbiamo una immagine ridotta, sintetizzata, piatta e questa immagine è interpretazione e progetto. In fondo non facciamo che rappresentare progettare immaginare visi. Per questo motivo riconosciamo la viseità negli oggetti, anche e soprattutto quando sono estremamente iconizzati (come i personaggi cult di mr. Sanrio, Shintaro Tsuji, inventore di Hello Kitty) e le molte e diverse mutazioni dello smile.
Tra faccia ed interfaccia vi è lo stesso rapporto che fra azione e interazione. L’interfaccia è la rappresentazione della faccia, la prima comunicazione di informazioni che attiviamo ed il modo per stabilire un intorno di riferimento. È la parte esposta del progetto, spesso addirittura l’unica che verrà trasmessa. È la chiave d’accesso.
Di questo raccontano gli anime(81) Battle Angel Alita, Neon Genesis Evangelion, Ghost in The Shell (e lo splendido film Tetsuo, the Iron Man di Shinya Tsukamoto), alcune tra le più interessanti produzioni giapponesi della prima metà degli anni novanta, narrazioni del rapporto fra il proprio essere e la propria maschera. In tutti questi film i personaggi animati sono calati dentro un’interfaccia da cui possono incrociare il mondo. Che a sua volta è rappresentato attraverso strati di interferenza successivi, interfacce. Vi sono numerosi piani che vengono continuamente mostrati nel procedere delle storie: riflessi, trasparenze, sovrapposizioni.
Sono tutti schermi, rituali di realtà, maschere. Come la faccia di Biancaneve(82), uno smile rassicurante da indossare a spasso per una foresta incantata ed espressionista. Mi sono chiesto se Walt Disney abbia mai visto il disegno I Sette Déi della Fortuna (1821) del maestro Hokusai, del periodo in cui si firmava Iitsu (con un ideogramma che si legge anche Tameichi, Nuovamente Uno). Forse Disney, l’iniziato, poteva possedere il libro in inglese di Ernst Fenollosa Epoche dell’Arte Cinese e Giapponese (1912) in cui si pubblicavano disegni appartenenti a questa serie. Sappiamo certamente che negli Studio si guardava il film Il Gabinetto del Dr Caligari di Robert Wiene per le sequenze della foresta, che furono studiati numerosi libri inglesi di fiabe illustrate (Arthur Rackham ispirò la forma dei rami), e che il lavoro di ricerca fu molto vasto.
Si tratta di un disegno particolare per diversi motivi: è stato realizzato da Hokusai insieme ai suoi allievi, il maestro in effetti è autore solo dell’immagine di Bishamonten, rappresentato non in forma antropomorfica, ma da un’alabarda e da un pettorale di guerriero (le sue insegne) appesi ad un tronco di pino contorto, il Dio è la sua icona. Poi Benzaiten in costume cinese, la faccia chiara, l’unica non deformata e caricaturale, il corpetto rosso, nascosto dietro al sacco di doni del sorridente Hotei, il danzante Daikokuten, il vecchio Fukurokujiu, il pescatore Ebisu, tutte e quattro facce molto caratterizzate, e infine Jurojin, quello che un giapponese vede per ultimo nella lettura da destra a sinistra, e che cela il suo viso, negandosi. Tutti disegnati dai suoi studenti, dal suo studio. Chissà che quest’opera collettiva non celi in qualche modo la maschera di Biancaneve, tra i suoi sette déi nani del bosco…
Hokusai divenne famoso in occidente con i suoi manga(83) (schizzi sparsi) che iniziò a disegnare dal 1814 e che i commercianti olandesi portavano in giro per l’Europa e vendevano agli artisti, affamati di quei segni. Uno di questi Henri-Charles Guérard (Menu franco-giapponesi, acquaforte, 1885) riconduce direttamente nei suoi disegni i manga di Hokusai al sistema fumetto, segnando il rapporto fra la rappresentazione animata occidentale e il segno iconico del maestro di Edo. Un rito di fondazione dell’edificio che stiamo disegnando.
Così “pregando Tanseiin”(84) trascorse il resto della sua vita “in mezzo ai libri e si dedicò allo scrivere. Sebbene io non conosca i segreti del feudo, stando al racconto dei vecchi, si tratta di una certa strategia che veniva insegnata personalmente al nuovo signore e trasmessa di generazione in generazione. Dentro una cassaforte erano conservati dei libri, “Estratti delle percezioni visuali e sensitive” e “Tre documenti scritti da un padre ormai defunto”, che venivano consegnati al signore al momento della successione al trono”.
Note

77 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani IV, Rizoma, op.cit., pag. 200.
78 L. Manovich, The Language of New Media, op.cit.; un segno è qualcosa che può essere usato per teleagire (teleact), pag. 158.
79 R. Jacobson, Deux aspects du language et deux types d’aphasie, in “Temps Modernes”, n. 188, gennaio 1962.
80 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani II, Come farsi un corpo senz’organi?, op.cit., pag. 37.
81 I film di animazione giapponesi.
82 W. Disney, Snow White and the Seven Dwarfs, USA 1937.
83 Hokusai, Denshin kaishu Hokusai manga (Educazione dei principianti tramite lo spirito delle cose. Schizzi sparsi di Hokusai), pubblicati in quindici volumi a partire dal 1815 (dodici in vita e tre dopo la sua morte). La pubblicazione italiana cui facciamo riferimento è il colossale G. Calza, Hokusai, il vecchio pazzo per la pittura, Milano 1999.
84 Titolo onorifico dato a Nabeshima Katsushige (1580-1657), signore di Saga. Il brano è tratto da Conversazioni nell’oscurità della notte, il brano introduttivo del testo composto a partire dal 1710 e diffuso segretamente fra i samurai con il nome Dialoghi di Nabeshima fino al 1906, anno della prima pubblicazione in Giappone. Dettato al suo discepolo da Yamamoto Tsunetomo, samurai di Nabeshima, Hagakure [all’ombra delle foglie], Il Codice Segreto dei Samurai, ha ispirato anche Jim Jarmusch per il suo film Ghost Dog.

3.3. Immagini vettoriali interattive: strumenti autore

4.14. Tutte le sere (…) prima di andare a letto, si aggiustava la cintura, toglieva la spada dal fodero, la fissava per un momento e poi la rimetteva dentro. Compiuto questo gesto, si addormentava.

La modalità narrativa oggetto di questo studio, la storia che si fa luogo da usare attraverso l’interazione, sta determinando le forme della sua struttura. Centrale è la multilinerarità di questa forma. La possibilità di costruire connessioni, anche sequenziali, anche temporalmente definite, ma che attraversano diversi piani, seguono più linee di fuga. Una dimensione virtuale, profondamente allineata con le strutture costituenti il sistema fumetto, che porta alla definizione e allo sviluppo del ‘cartone interattivo’. La vocazione di questo media è la produzione culturale di massa, deve fare riferimento a tecnologie di riduzione e riproduzione, utilizzare la sovrapposizione dei materiali, in un copia-incolla di linguaggio uso e struttura.
Se parliamo di luogo e di uso intendiamo anche che questa struttura non sarà solo relativa al linguaggio, ma allo spazio della produzione, al mercato, come una struttura fisica. Dunque come tutte le strutture fisiche, come tutte le produzioni di merci, deve essere soggetta a calcoli, controlli di resistenza, e rispondere a caratteristiche enumerabili. Non stiamo ancora parlando di chi gestisce il meccanismo economico, ma di chi lavora perché un progetto si faccia produzione, e il prodotto possa essere distribuito. Per questi gruppi creativi ci sono diverse condizioni necessarie: il prodotto deve essere realizzabile con strumenti disponibili e non rari, deve essere configurato secondo il proprio regime di segni, deve essere trasferibile, e infine deve essere accessibile, per iniziare a creare altre connessioni.
Per rispondere a queste richieste, a queste funzioni, sono stati progettati numerosi strumenti autore, ambienti software di produzione ipermediale specializzati per la zona operativa di riferimento, la narrazione interattiva. Questi programmi nella prima fase di elaborazione non potevano che basarsi su strutture narrative preesistenti, tre gli esempi di rilievo: Toolbook relativo alla forma libro, Director pensato sul modello del cinema e Flash, ancora un riferimento alla pellicola nella struttura ma orientato dichiaratamente all’animazione (in origine si chiamava Animator). Nel definirsi delle forme narrative, questi strumenti si sono poi adeguati, sono stati orientati anche dai prototipi dei prodotti che intanto venivano realizzati. Un processo legato alle richieste specializzate che venivano definendosi, che ha modificato anche notevolmente le possibilità dei programmi, oramai convergenti.
Primo dato notevole è che esiste una differenza sostanziale tra i primi due ed il terzo: Toolbook e Director nascono per produrre oggetti che viaggiano tra le merci essendo dotati di un supporto (CD-Rom ad esempio) che deve essere materialmente distribuito; Flash è esplicitamente progettato per la rete, piccoli pacchetti consegnati a domicilio, direttamente in un hard disk, senza toccare nulla nel mondo reale. Ecco come si spiega il caso della grande fortuna di Flash (e del suo plug-in) basato su di una struttura vettoriale(85) estremamente diffusa per la narrazione interattiva in rete.
La storia di Flash è interessante: nasce come una creazione della FutureSplash, società indipendente che subito assaggia il sapore della globalizzazione: il suo software Animator è utilizzato nel 1996 da Microsoft Network per la realizzazione del suo sito, per un’interfaccia a simulazione televisiva, in un web ancora a prevalenza testuale. Questa connessione diede un grande impulso allo sviluppo di prodotti basati su Animator: FutureSplash viene acquisita per intero nel 1997 da un’altra software house più potente, la Macromedia, assieme al programma che stava sviluppando, nella convinzione che questo sarebbe divenuto un punto strategico nel mercato.(86)
Questa società, che possedeva anche Director (software nato per il Macintosh negli anni ottanta come VideoWorks Interactive(87) e che solo dal 1994 lavora anche su Windows), unì in un solo plug-in (ShockWave player di cui abbiamo già parlato) i due prodotti, che tuttavia mantenevano, e mantengono sensibili differenze. Entrambi lavorano su di una linea temporale ma, mentre la partitura (score) di Director è studiata per evidenziare un oggetto per volta nelle sue caratteristiche e per le sue interazioni, la timeline di Flash è una pellicola cinematografica che può in ogni suo punto (frame) clonarsi e aprire nuove bobine, rimanendo sempre composta di strati successivi, proprio come gli acetati dei vecchi cartoni animati. È poi possibile anche determinare attraverso l’interazione e la programmazione la sequenza dei frames con salti e rimandi in avanti ed indietro lungo la linea temporale. Alcuni punti nodali della narrazione vengono evidenziati e la linearità della metafora viene sostanzialmente modificata. Il nostro filmato diviene un archivio attivo di filmati, immagini in connessione che il lettore possa richiamare.
SWF (ShockWaveFlash), è l’estensione codificata dei files prodotti da Flash e in inglese si pronuncia circa come swift, che significa rapido, agile, ultraveloce, un significato nascosto nell’acronimo e che faceva riferimento al tempo di download e allo streaming dei files SWF. Il suo successo fu insidiato inizialmente dalla Adobe (con il PGML), proprietaria dei software più diffusi che producevano formati vettoriali per la stampa, e la Macromedia fu costretta a rendere pubbliche le specifiche SWF. Il che vuol dire che altri programmi possono da allora produrre questo tipo di files (vedi ad es. Swish).
La prima critica che si poneva, e che resta ancora sostanzialmente aperta(88), è strutturale: Flash è impostato su di un formato binario e non testuale (ASCII), dunque i suoi contenuti non possono essere tracciati in alcun modo, non può essere soggetto alle indagini di un motore di ricerca. In generale, per ragioni di accessibilità e di compatibilità, resta opportuno pensare ad un progetto che utilizzi Flash solo quando non vi è la possibilità di raggiungere lo stesso risultato con il linguaggio HTML. La seconda critica è progettuale, legata alla concezione del tempo nella rete: la navigazione in ambiente testuale lascia al viaggiatore lo stabilire la durata e l’uso, mentre le movieclip di Flash introducono un’andatura a velocità definita, non modificabile, che viene subita dai net-surfers e che riconduce il media interattivo alla forma video. L’introduzione di questa velocità programmata riduce l’interazione, e rende il navigante meno attivo, costretto all’interno della macchina scintillante. Tanto che una battuta che circola in rete è Fight Flashism, combatti il flascismo…
Entrambe queste critiche derivano dalla forma chiusa, proprietaria, che è nel progetto di Flash. Non solo non ci sono sorgenti aperte e quindi non è possibile integrare un file SWF nella grande macchina copia-e-incolla di accumulazione del digitale, ma il linguaggio di programmazione (Action Script) non è liberamente disponibile, occorre una licenza per produrre questo tipo di oggetti, e il formato pubblico SWF può essere aggiornato dai produttori con frequenza non soggetta a controlli. Macromedia punta ad abbattere queste obiezioni spingendo in ogni modo per l’affermazione e la divulgazione di Flash, perché divenga predominante, così tanto utilizzato da non poter più essere discusso. Tutte le implementazioni che il programma ha subito lo rendono poco duttile ormai, e probabilmente è impossibile invertirne, o modificarne, il processo di sviluppo, sia per motivi tecnici che economici.
Se questo programma di monopolio non dovesse riuscire potrebbero emergere altre forme che già si stanno affermando al margine. Tutti gli elementi modulari di implementazione già costruiti su base XML (eXtensible Markup Language)(89) come lo SMIL (che si legge smail, sorridi) possono essere innescati ed integrare le interazioni animate direttamente in XHML, sostituendo, dal punto di vista funzionale, lo strumento Flash. I contenuti su base XML permettono un interscambio tra varie destinazioni dello stesso prodotto, lo rendono stabile su piattaforme diverse (pagers e cellulari p.e.) e per questo potrebbero avere un grande impulso.(90)
È certo che la grande diffusione di cui questo programma sta godendo costruisce una grande forza anche nel senso della modellazione: qualunque concorrente di mercato vede molto chiaramente le possibilità espressive che Flash apre e sa che dovrà confrontarsi con uno stuolo di infografici che hanno specializzato le loro conoscenze. In ogni caso sarà necessario tenere molto da conto tutte le obiezioni, e pensare a Flash non più come una scatola chiusa, il cilindro del mago, ma come strumento integrato, da utilizzare nella complessità degli strumenti autore per la rete. Per comunicare prima che per rappresentare.
Un design consapevole, studiato per favorire la navigazione tra i concatenamenti, deve essere indirizzato all’uso: il fatto che una porta debba aprirsi non può essere messo in discussione dalla forma della casa. Non discutiamo che ogni macchina per abitare avrà le sue specifiche forme, le sue regole, il suo stile di vita, ma che questi modi possano essere descritti in un linguaggio comune. Per esempio: non è immaginabile una rete in cui sia inibito il funzionamento base del copia-e-incolla e Flash è largamente usato al contrario per fornire informazioni chiuse non esportabili. Eppure, per le parti testuali, sarebbe sufficiente utilizzare i campi di testo dinamico, selezionabile e memorizzabile, rinunciando agli effetti grafici di morbidezza dei caratteri che il programma potrebbe garantire. Se inoltre i files non vengono protetti dall’importazione, se non vengono chiusi ma invece condivisi, è possibile con un poco di esperienza smontarne almeno i componenti grafici, e riutilizzarli. Farli entrare nel metabolismo della creazione.
Poi esistono alcune tecniche che permettono di evidenziare anche in Flash alcune delle funzionalità tipiche del linguaggio HTML: marcare le sezioni di un sito per i motori di ricerca, ad esempio, è possibile suddividendo in piccoli filmati il contenuto ed inserendo poi questi in pagine HTML adeguatamente commentate. Un metodo che aumenta la velocità complessiva di caricamento e rende anche di utilizzabili i segnalibri e i pulsanti dei browser che controllano, in avanti e indietro, la storia della navigazione.
Evitare il più possibile i lunghi tempi di caricamento, tenendo sempre sotto controllo il sonoro (che comunque possa essere disabilitato), lavorare sullo streaming piuttosto che sul preloading, impegnare nel modo più costante possibile la banda dei dati con il minimo di impennate, studiare le intercalazioni (i passaggi tra fotogrammi base calcolati via software) in modo che non richiedano elaborazioni troppo complesse, tutto questo permette di ridurre lo ‘scalino’ di accesso abituale nelle realizzazioni in Flash. E un tempo di navigazione calibrato, non autoritario nei confronti degli utenti. Determinare una navigazione interattiva piuttosto che una sequenziale è una attenzione che può orientare una progettazione volta ad una narrazione congruente, non all’ipnosi del consumatore nel grande magazzino.
Probabilmente la vocazione più sincera di Flash resta proprio l’animazione per cui la sua pellicola ipertestuale è stata sviluppata originariamente: la rappresentazione animata trova il suo campo abituale di organizzazione del lavoro nel sistema della stratificazione, con i livelli trasparenti sovrapposti e sincronizzati; oppure può essere indirizzata allo studio di prototipi software, per raccontare un uso, un’interazione. Flash permette un lavoro complesso sulla narrazione, più che riferirsi al disegno web tutto compreso, immaginiamo storie mutaforma che attingano ad un database, secondo una percorrenza randomica e a-sequenziale. Immaginiamo uno strumento che specializzi le forme della scrittura interattiva. Spinto in queste direzioni potrebbe reggere meglio alle tempeste di un mercato globale iperproduttivo che sta bruciando tutte le sue carte.

Note

85 Le immagini vettoriali sono basate sulla rappresentazione di segni (linee, curve, superfici) codificati attraverso funzioni matematiche, descritti relativamente alla posizione e al valore e dunque calcolati di volta in volta dal processore. Sono files che vengono prodotti e non riprodotti, come invece è il caso delle immagini rasterizzate, le bitmap, che sono codificate attraverso la mappatura dei pixel che le compongono. Le immagini vettoriali mantengono dunque la stessa risoluzione indipendentemente dalla scala di riproduzione, mentre le bitmap non hanno questa flessibilità.
86 In quel periodo si riteneva che la dominante e tentacolare Microsoft avrebbe addirittura inglobato Macromedia.
87 Per un confronto fra Director e Flash vedi D. J. Emberton, Director vs. Flash, www.zdnet.com, 2001.
88 E che si pone in modi più o meno aggressivi, tra i secondi vedi: J. Nielsen, Flash: 99%Bad, www.useit.com, 2000. Tra i primi L. Manovich, Generation Flash, www.rhizome.org.
89 XML è un metalinguaggio sviluppato dallo Standard Generalized Markup Language (SGML, da cui è nato anche HTML), è una raccolta di informazioni che possono essere utilizzate per generare altri linguaggi basati sui marcatori. E così sono stati generati una serie di elementi modulari specializzati. Tra questi Scalable Vector Graphics (SVG), Synchronized Multimedia Integration Language (SMIL), che hanno dallo scorso settembre il riconoscimento del W3C (World Wide Web Consortium) e l’appoggio di una schiera molto folta di sponsor, avversari di Macromedia, riuniti in una cordata contro il software a sorgenti chiuse (P. Festa, Flash rival gets green light from W3C, sett. 2001, www.news.com).
90 Il team di sviluppo di Flash continua a rilasciare plug-in che lo facciano restare in corsa. Con un recente aggiornamento della versione 5.0 è perfino possibile salvare con estensione SMIL per Real Player, con traccia audio separata e osservando alcune accortezze tecniche.

3.4. Regia ipermediale: il taglio della narrazione

11.142. Se si impugna la spada che taglia persino una piuma al vento, non c’è niente che non possa venir tagliato via.

Il processo progettuale è lungo, prevede soste, interruzioni, non è nemmeno detto che punti all’oggetto finito. È un percorso tra i concatenamenti che di volta in volta vengono attivati. Capita che sia il viaggio più che la meta la vera illuminazione. Molte opere sono interessanti proprio per questo motivo e non possono essere interpretate fuori da questa convinzione. La strada può essere vista solo dopo che è compiuta.
Altrettanto è vero che non vi è progetto senza proiezione, senza l’incessante desiderio di rappresentare. Questo lavoro di prefigurazione è un lavoro di sezione: in ogni punto del viaggio si può operare un taglio, una visione temporanea, uno stato. Si stabilisce un elemento attuale che mostra l’oggetto potenziale della ricerca. È come un album di fotografie che mostra una faccia che si trasforma nel tempo, la stessa persona, diverse rappresentazioni. Stati di mutazione. In questa tensione, tra percorso e sezione, si svolge il processo.
Lo story department Disney nasce con l’arrivo di Ted Sears nel 1931(91), otto anni dopo l’apertura degli Studio, ed il primo vero storyboard viene realizzato due anni dopo per la Silly Simphony Three Little Pigs(92). Si tratta di una profonda ristrutturazione nell’organizzazione della produzione di un cartone animato, lo scorrere della storia viene valutato su di una lavagna cui sono appesi i disegni dei passaggi fondamentali di ogni scena, sviluppando, nel cinema d’animazione, una tecnica che viene presto esportata nella produzione di ogni genere di film. Precedentemente (p.e. in Steamboat Willie, 1928, disegni Ub Iwerks e regia Walt Disney) si realizzavano delle illustrazioni affiancate da testi scritti, che raccontavano lo svolgersi dell’azione con gli accorgimenti di regia e, in una parte separata, gli effetti sonori, una specie di fumetto che in una pagina sola mostrava una serie di scene affiancate. Le storie erano concepite come una serie di gag, micronarrazioni comiche, giustapposte, che venivano continuamente revisionate da Disney nel processo di realizzazione. Quasi subito fu introdotto un metodo che prevedeva che ogni conversazione nelle fasi di lavorazione venisse trascritta per essere riletta e valutata a freddo. Un’enorme mole di scrittura ed una enorme mole di disegni erano la traccia del percorso.
Una volta che la separazione tra processo di scrittura e processo di disegno fu effettuata l’intero sistema produttivo andò frammentandosi, visti anche i sempre più numerosi artisti coinvolti. Così nasce l’idea modulare e collettiva dello storyboard, schizzi disegni illustrazioni di ogni formato e tecnica venivano appesi con le puntine da disegno su di una tavola. Pronti ad essere sostituiti tagliati modificati uno per uno. La messa in scena prevista dalla messa in tavola. È una forma del sistema fumetto, ma dotata di una grande instabilità, una grande capacità di mutazione. Un sistema per costruire narrazione, un controllo di flusso. Uno schizzo della rappresentazione.
La produzione digitale muove attraverso la stessa instabilità, è indefinitamente modificabile come dato interno al suo stesso essere. È il suo carattere. La flow chart, la mappa di flusso, è sostanzialmente la prima fase di storyboarding del digitale, dove le unità base, i nodi, descrivono la narrazione con eventi suoni immagini e testo. Nei giochi digitali una integrazione fra i due strumenti, di narrazione e attraversamento, è consuetudine operativa, un lavoro continuo di definizione dei rapporti fra storia e interazione. Nella gran parte delle realizzazioni che abbiamo studiato le animazioni sono progettate secondo una giustapposizione lineare, ma sappiamo che non è l’unica possibilità, vi sono intersezioni ancora da sviluppare.
Lo storyboard è la mappa. Se partiamo da questa considerazione è possibile che si delineino i modi della narrazione secondo quei caratteri discussi nel settimo capitolo. Una narrazione aperta, rizomatica, per micronarrazioni. Che si basa sulle connessioni. Orientata all’uso più che alla sequenza. Così da definire i campi e l’azione della regia ipermediale, organizzare la progettazione non soltanto attraverso un montaggio temporale, o una articolazione spaziale del succedersi delle immagini compatte, ma descrivendo e studiando come parte della narrazione le interazioni poste in essere, l’esperienza di navigazione dello spettatore/autore. Come si abita e si usa una storia diviene parte del come la si percepisce. È anche possibile che la percezione ne esca distorta.
Cerchiamo di individuare un percorso. Le storie di Nick Carter di Bonvi realizzate per la televisione italiana degli anni settanta (1972 la prima puntata) non erano proprio cartoni animati, ma fumetti in sequenza con schermate che si susseguivano. Obbligavano a ragionare da lettore più che da spettatore di un flusso di immagini, in qualche modo si immaginava di sfogliare quelle pagine virtuali, una modalità ipertestuale attuata nella rete. Altre prefigurazioni interessanti per una progettazione ipermediale si trovano negli studi di animazione per la televisione.
Un lungo studio della struttura della narrazione, dell’animazione disneyana e delle applicazioni per il piccolo schermo elaborate da UPA e Hanna-Barbera, unita ad una grande passione per il cinema in tutte le sue forme, portò Osamu Tezuka(93) a progettare di trasferire i suoi manga nell’animazione, fondando la sua casa di produzione Mushi Pro. Iniziò immediatamente a produrre preparando il suo primo film secondo i metodi classici dell’animazione e, quasi contemporaneamente, intraprese anche la realizzazione di Tetsuwan Atom (Astro Boy, 1963) un cartone per la televisione che prevedeva un episodio a settimana di 30 minuti. Una quantità incredibile di lavoro. Solo con una ristrutturazione dell’organizzazione produttiva poteva essere possibile portare avanti il progetto: i disegni che potevano essere animati in una settimana alla Mushi erano circa 2.000, contro i circa 36.000 usati per un film animato della stessa durata. Un dato assolutamente non modificabile per le condizioni economiche.
Tezuka era un autore completo di manga, fumetti su carta che produceva ad un ritmo forsennato, e decise di impostare il lavoro partendo dalla sua esperienza di fumettista: non usò storyboard per Atom, schizzava direttamente su carta le inquadrature via via che dovevano essere realizzate e le passava ai disegnatori. La struttura portante di quelle animazioni era il fumetto, con pause, inquadrature fisse e movimenti ridotti al minimo: cinquanta persone in fuga venivano rappresentate con quattro inquadrature dall’alto riprese più volte senza un ordine preciso. Si smontò e catalogò ogni personaggio, ogni elemento di scena, ogni effetto, iniziando a costruire un archivio di frammenti di animazioni che potesse essere riutilizzato.
Esattamente allo stesso modo, usando il découpage, il taglio, dobbiamo procedere per la progettazione di una animazione vettoriale: rielaborando, riutilizzando gli elementi, e riducendoli al minimo indispensabile. Elementi modulari, che potranno essere utilizzati diverse volte modificandone via software alcune proprietà (in Flash p.e., attraverso l’uso delle istanze, i richiami temporanei di un elemento conservato in un archivio, la libreria). Un’attenzione particolare va rivolta alla struttura della rappresentazione: pensando i pupazzi e gli elementi di scena come frammenti, ritagliandoli ed isolandoli, possiamo ridurre le animazioni alle essenziali e far sì che si attivino gli oggetti uno per volta, per ottenere una trasmissione più fluida dei dati, senza picchi elevati di informazioni da gestire nello stesso momento.
La connessione fra le forme dell’animazione interattiva e la tecnologia di riferimento è stretta e stabilisce regole e confini precisi al nostro lavoro: convertire questi limiti in un punto di forza, trasformarli in linguaggio, è progettare. È necessario avere fiducia nella forza di cui disponiamo: il patto tra il testimone ed il mago, la disponibilità a farsi parte della narrazione, a credere reale ciò che non esiste. Un sistema di distrazione concentrata è quello che serve, in cui ogni elemento focalizzi l’attenzione per quanto è necessario, lasciando che si sviluppino altri concatenamenti. Non stupire, ma attirare e distrarre.
È una considerazione che deve guidare tutto il percorso del progetto, dallo studio degli elementi al lavoro sulla sceneggiatura, alla scrittura dell’interazione e riguarda molte scelte nel regime dei segni, tutte utili a stabilire le maniglie virtuali, i rituali di realtà, la direzione della visione, le continuità e i salti nella narrazione. Perché la storia è luogo, mappa, segno.
Il disegno dei personaggi, dei caratteri, la chiave per dare anima ai nostri Golem: la scelta delle maschere/viso, il segno che le compone, i colori ed i costumi, il loro modo di essere nello spazio di scena, tutto questo comunica con intensità, racconta. Favorisce o allontana l’identificazione.
Il disegno degli ambienti, lo spazio scenico dell’azione, è interdipendente alla narrazione, va immaginato per favorire le connessioni, non per nasconderle. Deve individuare e narrare i punti caldi dell’interazione, è il riferimento stabile al fluire della storia. Schermo piatto o prospettico, profondo o sfuggente, ma sempre un passo indietro ai caratteri: deve poter divenire fondale.
Il disegno della luce. Uno strumento forte di definizione della scena è il colore e le sue valenze tonali, numerizzate e codificate, è parte integrante del controllo della luce sulle immagini, un elemento narrativo chiave, la traccia più potente per guidare l’occhio verso i punti nodali, i punti in trasformazione. Bianco, nero, traccia di colore.
Dissolvenza.
Nero.

Note

91 J. Canemaker, Paper Dreams. The Art & Artists of Disney Storyboards, New York 1999.
92 Il film, che esce nel 1933, contrappone tre porcellini rosei e ariani ad un lupo nero mercante di spazzole, una simbolizzazione antisemita che non sfuggì e valse a Disney simpatie fasciste e naziste, come ricorda A. Barbera in Camerata Topolino, Roma 2001, pag. 62 e 67.
93 Facciamo riferimento a quanto ci racconta Toshio Ban nella sua biografia a fumetti (Osamu Tezuka, Una Biografia Manga, vol. III, Bologna 2000), in cui viene ricordato lo stesso Tezuka osservare per ore ed ore, direttamente dalla pellicola, i film animati.

3.5. La casa piatta

10.2. Dimenticò tutto quello che gli era stato insegnato. Però davanti ad ogni situazione difficile agiva seguendo il suo
intuito.

“La casa sembrava piatta sulla collina. Un cartellone di similprene rosso fuoco che stingeva verso il bianco e si vedeva bene il recinto intorno e funghetti e pupazzi saltellavano qua e là con uno squittio sintetico. Devi acchiapparli tuuuttiii e rincorrerli rimbalzando. Sibili e frenate per evitare gli alberi che sbocciano improvvisi dal prato. E trucchi e trabocchetti. Bip e musiche elettro. Rumori di biglie di ferro gettate alla rinfusa. Ritenta ritenta. Salta veloce sei dentro ora calma calma non ti muovere. Guardati intorno c’è qualche fruscio che attira la tua attenzione ti giri e sba-atti contro un ENORME GIGANTESCO ESSERE IMMONDO. No era buono bastava dargli una di quelle carote che avevi vicino. E adesso ti segue ti mostra un passaggio nascosto e scendi con lui un tipo così ti dà sicurezza…
Salta sul letto, cerca a tastoni la candela lì accanto, l’accende, sudato. Un altro di quei sogni che illuminano le notti di Maano. Si guarda attorno perplesso, ride fra sé, soffia sulla candela, si stringe nelle coperte e dorme di nuovo, beato”. Tratto da: Fuochi nella Galassia di Valerio Bindi

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