Notice: Function _load_textdomain_just_in_time was called incorrectly. Translation loading for the gutenberg domain was triggered too early. This is usually an indicator for some code in the plugin or theme running too early. Translations should be loaded at the init action or later. Please see Debugging in WordPress for more information. (This message was added in version 6.7.0.) in /srv/fortepressa/wp-includes/functions.php on line 6114
Contributo per LASPRO 40 (2017) [CC-BY-SA] – Valerio Bindi

Contributo per LASPRO 40 (2017) [CC-BY-SA]

CRACK! un Festival Nagual

di Valerio Bindi

Testo rilasciato in CREATIVE COMMONS [BY SA] e liberamente scaricabile. Ogni donazione all’associazione La Bagarre con cui organizzo molteplici attività è benvenuta.

donate
BAMBI_KRAMER-laspro
Bambi Kramer illustrazione da La Rabbia

Nei libri di Carlos Castaneda, Don Juan distingue due universi: uno tonal e l’altro nagual. L’universo tonal è l’universo quotidiano dei rapporti causa-effetto, prevedibile perchè già registrato. Quello nagual è l’universo sconosciuto, imprevedibile, incontrollabile. Perchè il nagual abbia libero accesso, bisogna spalancare la porta al caso.
William S. Burroughs

La prateria sconfinata che i centri sociali rappresentavano nel 1990, dopo la prima fase di costruzione territoriale di un percorso di obiezione allo stato di cose presente, era attraversata da raggi e lampi delle più svariate forme creative. Questa esplosione era certamente frutto di una riflessione determinata da parte degli occupanti che avevano aperto spazi eterotopici nel tessuto urbano e coglieva i segni di un contemporaneo momento di espansione creativa di straordinaria intensità, che si è protratto poi per tutto un decennio. 

Il primo festival al CSOA Forte Prenestino di Roma che raccoglieva entrambi questi impulsi fu il Festival Internazionale dell’Arte nel 1991, esperienza che convogliò negli enormi sotterranei della fortezza le diverse arti plastiche che emergevano, graffiti, installazioni, approcci alla multimedialità, riciclo dei materiali, plagio e mutazione. 

Di lì in avanti la fucina Forte ha messo insieme nel corso degli anni novanta una quindicina di progetti differenti, con diverse edizioni e gruppi/collettivi curatoriali, e in qualche modo anche con filosofie divergenti. Il caleidoscopio di volta in volta si focalizzava su di un nuovo versante ma sostanzialmente le arti della contemporaneità erano tutte chiamate in causa simultaneamente: nuovi linguaggi del corpo, del digitale, del fumetto, del cinema, del teatro e dell’architettura. Il meccanismo brilla sul finire del millennio con il profetico tasto OFF spinto dal festival audiovisuale indipendente che, volontariamente o no, segna il punto su tutte queste esperienze. A questo segue al Forte l’hackmeeting sui diritti in rete del 2000 con i sotterranei invasi da computer raffreddati ad acqua, hacker, succhi di frutta e biscotti zuccherini. E poi piomba Genova 2011. Il G8 e le sue deflagrazioni che si ripercuotono sul tessuto creativo e culturale che si era intrecciato fortemente al fare politico degli anni novanta.

Quello che ne deriva è un assordante silenzio. Un rumore bianco che per tre lunghi anni ammutolisce ogni possibilità di ripercorrere le strade che sfrecciavano di esperienze nel decennio precedente. L’inizio del millennio è una perdita di linguaggio pesantissima. Crollata la torre di Babele che i tecnocostruttori avevano edificato crolla con essa l’interlingua del movimento e di tutti i suoi interpreti creativi. La conflagrazione del movimento posto ad una prova repressiva di enorme portata, scatenata appositamente da zero a millemila in tempo ridottissimo, trascina via la rete di tutta la rete che aveva cercato di individuare vie differenti ad una espansione delle arti, come fattori autogenerati, fuori dai circuiti dello spettacolo e del capitale. Fuori dalla grande distribuzione, fuori dalla dittatura del copyright sull’opera intellettuale. 

L’intuizione di uno sparuto gruppo di autori di fumetti che lavorano in quel momento a Roma è quella di far crepitare un’onomatopea in questo silenzio, CRACK!, e di ricominciare a parlare con i segni, tutti i segni, con i disegni e la scrittura intendo, là dove la parola non riusciva più a tenere vivo il linguaggio, la narrazione orale di un movimento spezzato. Ecco da dove arriva la grande risposta che questo sparo nel deserto ha richiamato.

Così nasce CRACK!, primo festival del dopo G8 che riporta il discorso al grado zero di un segno basico, brutale, aggressivo forse, ma anche tenero e disperato. Ma in fondo soprattutto politico. Il progetto di questo festival ruota intorno alla consapevolezza che il capitale crepita e scricchiola, che esiste una risposta fuori dal mercato e che ci sono schiere di autoproduttori con esperienze assai diverse, pronti a percorrere strade poco visibili, ma ben segnate. Quindi il festival si sviluppa subito con una linea di tre autonomie praticate: auto convocazione, auto finanziamento, auto organizzazione. Solo decostruendo alla base i meccanismi di produzione e di spettacolo è possibile individuare nuove forme per la radicalità e la ricerca. Per un linguaggio politico immaginario che rimetta in discussione le forme del conflitto. 

Come osserva in un suo recente scritto Rakel Stammer (The Underground of Fanzine; An essay on the political and radical potential of zines https://underlandets.wordpress.com/2017/05/02/the-underground-of-fanzines/) CRACK!, distruggendo ogni idea di professionalità si pone al di fuori di competizione e produzione capitalista, e distrugge con questo anche la relazione di classe che lo spettacolo produce attraverso la definizione di artista. A questo si contrappone quella del produttore underground e radicale, il soggetto creatore di questo festival. Perciò dopo un avvio internazionalista, plagiarista e metropolitano (coatto si potrebbe dire) CRACK! ha avviato due trilogie di significati su cui aprire la ricerca: la trilogia della distruzione (edizioni Apocalisse, Orda e Genesi) e la trilogia dell’Un-do It Yourself (Capitale, Crack-land e Coyota). Si è mirato con questo in una prima fase proprio al recupero di valori art brut e barbarici, nel senso del carattere distruttivo di Benjamin e del barbarogenio di Micić, e poi alla ridefinizione del senso dell’autoproduzione rimettendo in discussione i principi stessi del DIY attraverso il suo disfarsi. La terza parte della trilogia sull’U-DIY arriva dopo Capitale, la moneta vivente, e Crack-Land, lo spazio della t.a.z., la zona temporaneamente autonoma necessaria per avviare ogni processo. Coyota è sul processo del cambiamento, la mutazione individuale che diviene collettiva, connessa con l’atto di creazione.

I processi di autoproduzione, e tra questi il fenomeno sempre più esteso e coinvolgente di elaborazione delle nuove generazioni di fanzine, rischiano di esprimere un lavoro di design, di feticismo dell’identità dell’autore o del collettivo, piuttosto che un oggetto problematico e aperto alla condivisione. Sentiamo quanto sia indispensabile riflettere sull’abbandono del progetto e del lavoro di auto-produzione, in favore di dinamiche processuali, di non lavoro e di non progetto, di abbandono al flusso alla dispersione dell’autore all’interno di un network di simili che attraverso l’arte e le forme di distribuzione informali sperimentano una forma anticapitalista di elaborazione della propria esistenza. Questa esperienza è possibile sperimentarla a CRACK! sia come artista partecipante che come pubblico sostenitore: una diffusione dei ruoli di artista/produttore/espositore/visitatore, fino ad una commistione dei ruoli e alle volte fino alla compartecipazione totale di ciascuno di questi soggetti all’opera finita. Il clash culturale che rappresenta CRACK! è proprio sulla definizione stessa di autore di artista e di spettatore, alla ricerca di un formato ibrido, indeterminato in cui chi partecipa è veramente parte di un processo condiviso e radicale. Per ottenere questo ognuno dei protagonisti di CRACK! fa un passo indietro, decostruisce il suo ruolo mira a dis-organizzare, a sur-vertire, a de-flettere. In una parola a cedere il passo all’imprevisto, al nagual.

Così si chiarisce il senso della Coyota, tematica per certi versi inaspettata, la divinità punk e stellare che è stata ispirata dal disegno di Ines Estrada fatto per il festival di qualche anno fa. Coyota è una divinità femminile del deserto, non solamente umana né solamente animale, capace di vivere fuori e attraverso il mondo degli umani. Coyota incarna l’idea di “devenir loba/perra”, esseri visti come creature intelligenti e autodeterminate, che sono nel processo di divenire qualcosa. Né dio né animale, né uomo né donna. Una divinità sessuale in grado di creare e dare vita ad altre creature mutanti e ad opere d’arte. Ma è anche un imbroglione alla ricerca di molteplicità con una visione non così binaria dei generi e della vita, un sorta di identità cangiante. La divinità della creazione mutante e underground è la creazione stessa ed è connessa ad ogni divenire: Amaterasu Omikami, la Pachamama, Sheila-na-gig, Juno, Adi Parashakti, Morgana, Feronia, Baba Yaga, Estsanatlehi, Freya, Coyolxauhqui e la Lupa romana. Imprevedibile e imprendibile, irrecuperabile e ferina. 
Un festival nagual produce una dinamica inarrestabile, una spirale continua che mette in moto nuove esperienze e riconsegna il progetto a ciascuno dei partecipanti: così si sviluppano oltre a nuovi progetti di editoria radicale, politica e autoprodotta, anche nuovi progetti di festival, messi in rete e riuniti dalla stessa forte base programmatica. Gli ultimi UE’ a Napoli allo Scugnizzo Liberato e OLE’ a Bologna ad XM24, nati quest’anno, hanno mostrato che non si comincia più da zero: il pubblico interviene subito e sostiene. Ci vuole un CRACK! in ogni città, per una fame culturale che le strutture progettate con i canali ufficiali non possono saziare, perché non riescono ad affrancarsi dalle scelte che procedono nella direzione opposta, orientandosi verso gli ambiti della formazione professionale o del mercato. Modelli che riproducono e sostanziano i rapporti di classe che CRACK! sta cercando di mettere in crisi anche grazie all’energia di un pubblico sano colto attento e vivace che conferma ogni anno come si tenda verso una responsabilità condivisa nella composizione corale di festival o di libri (concreti o immaginari) che siano. Dopo l’abolizione del lavoro in favore del non lavoro e del processo, resta l’ultimo passaggio che è l’abolizione stessa del prezzo e la trasformazione della vendita in dono, come tra le altre produzioni di Fortepressa, le edizioni fantasma di CRACK!, anche l’esperimento straordinario del libro per i trent’anni del Forte, Fortopia, ha dimostrato.