Siamo una grande pancia, una società di molecole costruttrici di immaginari, generatrici di opere d’arte fragili, micro mondi di zine, a volte fotocopiate o dalle tecniche di stampa più raffinate. Ma non creiamo solo con le immagini, abbiamo suonato le arpe eoliche e acceso fuochi nei territori al margine delle città. Abbiamo raccolto storie canzoni e visioni. Abbiamo visto deserti e montagne e città multilivello. Entità ribelli in biciclette riciclate e astronavi scassate ai margini della galassia.
Abbiamo visto e conosciuto con chiarezza che la distruzione prende il via dalla terra e dalle foreste. Uno sterminio contro gli inermi che il capitale determina con freddezza, calcolo e brutalità. Il virus è un effetto collaterale, non il primo non l’ultimo, di uno stato di cose che continua a produrre altre forme di annientamento di ogni biomassa.
Quando abbiamo sentito scricchiolare la nave sui lastroni di ghiaccio era molto prima che fossero in vista gli iceberg su cui ha impattato. Ora sappiamo che sono montagne ghiacciate di polimeri, niente di organico. Strati di accumulo di materia esausta. Colpito negli occhi e senza fiato tra le sue stesse scorie il capitale è cieco e, come non vede noi, non trova altre forme di vita di cui curarsi. Resta in piedi tra le macerie solo il dispositivo di controllo che scruta spazi desertificati.
Abbiamo un compito in questa segregazione: generare ancora storie canzoni e visioni che fermino questo processo, permettere che si sviluppi tutto il sottobosco, il compost su cui mettere in moto comunità e processi creativi. I festival che realizziamo sono ultraluoghi di contaminazione dove le situazioni e le collettività ballano fino al mattino seguente. Accumulatori energetici, diffusori di entropia organica.
Siamo fuori da ogni obbiettivo. Non siamo una categoria, siamo un mondo che non ha assorbito in silenzio i modelli di vita proposti. Ne abbiamo scavati altri, tra mille difficoltà, fra lavori sommersi e precari. E abbiamo provato a fare rete, per una volta, senza nessuna rete di protezione. Abbiamo formato un network che non è virtuale, ma concreto e tangibile, fatto di vite che si incontrano e condividono, di persone che decidono dei propri corpi e dei propri sessi come del proprio modo di creare le cose, di radicali che vengono da molti margini diversi. La rete per l’autoproduzione, una rete intrecciata, orizzontale, autoconvocata, autogestita, autofinanziata, solidale e internazionalista.
Come diceva Edwin Chota attivista del popolo Ashéninka : “Mi sento più forte con un network stretto attorno a me. Non importa di chi sia la faccia di questo network. L’unica cosa importante è che continuiamo ad avanzare e camminare insieme.”
In lingua xhosa, quella che si parla nei ghetti in Sudafrica, fika vuol dire eccomi, arrivo e il verbo fikasi è andare insieme, accompagnare qualcuno da qualche parte. Allora questa rete è quella FIKA, bellissima e imprendibile, capace di sorprendersi a volte per le proprie contraddizioni e invece riaprirsi nell’unire cellule di rivolta immaginaria.
Questo è il momento di una apertura ancora più ampia, contaminazione, commistione con altre realtà. Realtà singole e collettive, festival, eventi, etichette musicali, schegge vaganti, spazi di creazione e laboratori. Reti di reti di reti. Certo, ora dobbiamo trovare altri modi altre forme per riprenderci quello che abbiamo costruito in autonomia, con pazienza e senza chiedere permesso a nessuno. Perché questa RETE di Fantastiche Inespugnabili Kreature Autonome possa essere un sostegno concreto a tutti questi progetti politici fatti di segni imprendibili.