Estetica, Underground e Auto-produzione
Lo spettacolo della deformazione, della trasformazione, dello straniante, combinato con l’essenza nomade ed i corpi irregolari, più o meno volontariamente modificati e inespugnabili.
di Valerio Bindi
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di questo testo Fortepressa ha stampato un volume che può essere richiesto qui: https://fortepressa.net/cosa-sono-le-nuvole/
Nel mondo sotterraneo, che non è un modo clandestino ma uno spazio del mondo ben in vista che scompare alla navigazione anche essendo sotto gli occhi di tutti, dobbiamo continuamente ricostruire il senso delle cose che facciamo. Questo significa soprattutto ricostruire le parole che usiamo: underground autoproduzione estetica sono tre parole da scardinare.
Estetica: Con il termine Aisthesis si indica l’Estetica, la
categoria che da due secoli indica la materia sensibile e la forma intellegibile di ciò che chiamiamo Arte”, la conoscenza sensibile. È possibile considerare “appartenenti all’arte cose molto diverse fra loro quanto a destinazione o a tecniche di riproduzione. La questione non riguarda la “ricezione” delle opere d’arte; riguarda al contrario la trama sensibile dell’esperienza in cui esse sono prodotte (Jacques Rancière in Aisthesis, 2017).
Questo legame fra opera pubblico e artista non ha nulla a che fare con la forma, con la bellezza, e invece si intesse con le condizioni materiali e soprattutto l’esperienza: il farsi dell’opera dentro le condizioni di vita, un processo che costruisce relazioni. L’estetica non ha a che fare con il bello ma con la vita. Questo scardina la convinzione che un’opera d’arte esista in quanto tale come oggetto anche fuori da una percezione e da una esperienza, come un elemento assoluto dal tempo e assoluto dalla sua costituzione. La certezza del regime dell’arte, dello stato di cose che costruisce il sistema in cui l’arte si sviluppa, si apre ad una visione estremamente instabile che può accogliere al suo interno qualsiasi situazione, realizzando simultaneamente un duplice status di instabilità/stabilità. Da un lato infatti si sopprime il dispositivo normante che autorizza a delimitare quanto sia arte e quanto no, e dall’altro in questo regime, essendo dotato di una propria forma di inclusività indefinita, si rende possibile ospitare qualunque registro aprendo a percorsi e logiche riconfiguranti. Tutto può rientrare nel regime dell’arte una volta che si è stabilita un’autonomia esperienziale del sensibile rispetto alle forme codificate del rappresentare. L’inclusività permette espansione, costituisce un elemento di stabilità, elasticità e assorbimento di ogni possibile carattere emergente, una ricombinazione che permette al flusso di proseguire, un dispositivo di sopravvivenza e ridefinizione.
Underground: in un’intervista per Gomma TV (1993) al Prof Bad Trip (Gianluca Lerici), il maggiore protagonista dell’underground e del fumetto degli anni novanta spiega come quello che definisce “Pop Underground” prenda origine dai dipinti sui carrozzoni da circo dei freak che vagavano per l’America, i sideshow, e da quelli sulle hotrod, le macchine, spesso rubate, modificate per farle sfrecciare in gare più o meno regolari. Le immagini pop, extra/vaganti, di questi mutanti, i segni e le linee di queste fiammanti autovetture da prateria, formano, fuori dallo spazio designato dello spettacolo, un alfabeto iconico specifico e condiviso dalla comunità (serbatoio di visioni di cui lo stesso Bad Trip si nutriva e che devolveva agli occhi spiraliformi del suo pubblico), producendone a loro volta una riconfigurazione. L’immaginario underground si sviluppa in continua rielaborazione di questi elementi che ne caratterizzano la storia: l’esibizione, lo spettacolo, la mostra della deformità, le human oddities, e l’essenza nomadica, la rapina, la modificazione più o meno volontaria di corpi macchinici irregolari e imprendibili. “L’opera dello schiavo è l’uso del corpo” dice Aristotele. L’irriducibilità dell’underground nasce da questi intoccabili del corpo, che non potevano contrattare in alcun modo la propria condizione. Tra ammirazione, paura e inarrivabilità l’underground crea un pubblico, in qualche modo compartecipe di questa irriducibilità, che si interessa alla vita, all’esperienza di vita che questa umanità mette in mostra. Una comunità di altre persone che considerano sempre qualunque esistenza una forme di vita, anche là dove lo spettacolo esibisce esseri grotteschi e mostruosità.
Autoproduzione: Una volontaria e determinante inabilità alla vita normalizzata, al lavoro, al tempo della produzione è la risorsa alla base delle centinaia di fanzine dai colori accecanti e dai segni distorti, che popolano il mondo sommerso e sotterraneo. Un modo di essere nel mondo che delinea un rifiuto cosciente e programmatico delle forme che legano produzione a denaro, fare a mercato. Si tratta di una molteplicità di persone e attività poetiche che legano stabilmente sia la narrazione che la sospensione di questa, alla forma e al metodo della produzione, all’esperienza del fare, alla condivisione e alla reticolarità. Una scelta che produce relazioni e processi invece di contatti e progetti.
Che cos’è lo spazio estetico underground?
L’esposizione di corpi dolenti, devianti e mutati è oggetto di narrazioni diverse e complementari fin dall’ottocento post vittoriano. Negli anni trenta del novecento Edogawa Ranpo nella storia breve Il Bruco (芋虫 Imomushi, 1929) censurata e non ripubblicata a lungo, recentemente adattata a fumetti da Suehiro Maruo e sullo schermo (Caterpillar, 2010) da Koji Wakamatsu, narra il contrappasso della mutilazione che subisce un crudele soldato durante la seconda guerra sino-giapponese, ridotto ad un tronco sordo e muto ma follemente desiderante. E negli stessi anni sul grande schermo dalla parte opposta del pianeta madame Tetrallini protegge, e al tempo stesso mostra, i suoi ragazzi che lavorano nel circo in Freaks di Tod Browning, il film cui la censura tagliò senza pietà trenta minuti di immagini e corpi disturbanti dopo la prima proiezione nel 1932. Un film che è interamente dedicato ad indagare la vita e le relazioni che esistono tra questi mutanti al di fuori dello spettacolo, nello svolgersi della loro vita del loro tempo di non lavoro. Nella cura di sé si mettono in gioco e si costituiscono nella loro umanità. Tra questi il torso umano, Prince Randian, lo stesso portato alla ribalta da PT Barnum, si accende e fuma una sigaretta da solo e solo usando le labbra. Quello che si mostra e sorprende di questi human torso è la capacità di poter fare dove è evidente e forzata la sospensione di ogni movimento. Ma il topos resta e attraversa la storia del fumetto: è in Skin (1992) una storia di Peter Milligan e Brendan McCarthy dove Atchet, un mutato dal talidomide, attraversa la storia e le periferie desolate di un Regno Unito post punk e pre Brexit. Un altro torso umano oggi a quasi un secolo di distanza è ne la Ballata di Buster Scruggs dei fratelli Cohen dove in Meal Ticket il torso umano che si chiama solo The Artist recita sul palco sfruttato biecamente da un impresario straccione che rimanda ancora a Barnum. Artista in potenza senza altra possibilità di intervento che quella della sua voce della sua poetica, ma destinato alla sostituzione, allo smaltimento quando subentra una nuova attrazione nello Spettacolo. Artista precario e intermittente. Artisti oggetti usati e esuberati, eliminati. Ma da dove arriva questo torso che carica su di sé la sensibilità della rappresentazione?
“Per quanto questa statua sia estremamente rovinata e mutilata, nonché priva della testa, delle braccia e delle gambe, essa si mostra ancora oggi a quelli che sono in grado di penetrare i segreti dell’arte nello splendore della sua antica bellezza”. (J.J. Winckelmann – Storia dell’arte dell’antichità)
È del 1764, prima ancora che il primo fumetto moderno fosse scritto, questa descrizione che Winckelmann fa del Torso del Belvedere, un frammento, un tronco seduto che si ipotizza possa rappresentare Ercole, un freak in rotazione senza gambe e senza braccia. Winckelmann smonta completamente l’idea che la bellezza classica sia legata alla forma completa e definita e mette in evidenza come questa forma mutante, un oggetto instabile privo di una possibilità rappresentativa finalizzata esplicitamente, quasi un oggetto astratto, sia in grado di esprimere in potenza un movimento e una immagine. Una immagine-storia che racconta una cosa che potrebbe essere: tanto impressionante è questa forza inespressa che siamo portati ad attribuirgli il ruolo di Ercole, mentre vediamo una figura che rappresenta effettivamente il Bruco di Ranpo descritto sopra. Jacques Rancière a partire da queste parole individua la previsione di una “arte del futuro”: le “potenzialità che si rivelano quando cadono i codici espressivi e la volontà espressiva” rendendo “una statua perfetta e mutilata, perfetta perché mutilata, costretta dai suoi arti mancanti a proliferare in una molteplicità di corpi sconosciuti”. L’analisi di Winckelmann che mette in crisi un regime dell’arte viene ricondotta al qui ed ora e fonda il regime dell’estasi di cui partecipiamo nel tempo presente.
Questo frammento è stato un punto focale nel processo di immaginazione di opere e mondi da parte di critici e artisti, era l’ossessione di Michelangelo che si definiva discepolo del torso e ne studiava continuamente caratteri e forma. Anche William Hogarth lo pone problematicamente nel suo L’analisi della bellezza (1753) dove fa riferimento al sistema di linee serpentine che lo attraversa. Il torso è al centro della composizione nella tavola prima allegata al testo, come elemento oscuro e perturbante. E il lavoro di Hogart è citato come diretta ispirazione per Rodolphe Töpffer, studioso di belle arti e professore di lettere a Ginevra, amico di Goethe che lo spingerà a pubblicare le sue storie. È tra i primi (dal 1827 in avanti) a creare un personaggio e a formalizzare gli elementi del sistema fumetto nelle sue narrazioni illustrate che lui afferma possedessero una “natura mista”, unendo indissolubilmente disegno caricaturale e testo. Questo del disegno fisiognomico, non realista ma in qualche modo difettoso, sbagliato, e la tecnica autografica che Töpffer usava nella riproduzione dei suoi lavori impostano su questa criticità il sistema fumetto.
L’abolizione dell’idea di bellezza come intero e ben fatto, dato compiuto ed equilibrato, deve essere presa come punto di partenza per cercare di capire come si sviluppa la nona arte. Al centro dell’esplorazione si pone il frammento e la giustapposizione di immagini e di testi. Un’instabilità tra segni ed elementi organizzata con perizia. Il fumetto non esiterebbe senza questa capacità di spaccarsi braccia e gambe per dare forma a una potenzialità che interseca delle mancanze, delle parti irrisolte. Anche per questo il fumetto si costituisce al di là delle modalità dell’espressione di un singolo autore: non è un linguaggio ma un regime di segni, un sistema, uno spazio che contiene meccanismi e regole che permettono a molte lingue di svilupparsi al suo interno. Come lo è il disegno di architettura, ad esempio, è un motore e uno spazio dove i linguaggi si possono insediare. Ha bisogno di tenere ampio il recinto e vasto l’orizzonte. Tutta la produzione di immaginari che nasce e si sviluppa nell’underground è una dimensione del corpo. Ha a che fare con questo torso spezzato, con frammenti che continuano a produrre spaccature e dislocazioni, creando uno spazio dove il segno, il disegno e la storia collaborano a far proliferare corpi sconosciuti. Un ecosistema marginale, uno spazio dove gli scarti della produzione industriale vengono usati rovesciandone il senso.
In qualche modo l’underground può essere un ecosistema che cresce negli interstizi del kitsch. Secondo Clement Greenberg:
Il kitsch è un prodotto della rivoluzione industriale […] scoprendo contemporaneamente una nuova dimensione, quella della noia, le nuove masse urbane esercitarono una pressione sulla società richiedendo un genere di cultura adatto al loro consumo (Avanguardia e kitsch, 1939).
Richiesta che proviene dalla possibilità di tempo libero, di non lavoro, per nuovi proletari che avevano cambiato il loro status culturale, perdendo per sempre i legami con la tradizione e allo stesso tempo non riuscendo però ad accedere alla cultura dell’élite. Si sviluppa un’arte industriale, economica e legata alla sua riproducibilità, e di facile comprensione, che porterà alla sostituzione prima, e all’estinzione poi, della cultura materiale che caratterizzava la produzione artistica popolare. Mentre nel frattempo il capitale inizia, con investimenti ingenti che sostengono le avanguardie, a preparare lo spazio per una nuova arte che le masse proletarie non riescano a comprendere, che spazia dall’astratto fino all’espressionismo astratto. Secondo Greenberg i rotocalchi e i cartelloni pubblicitari, le copertine delle riviste e i film di Hollywood, il tip tap e il fumetto sono tutte opere kitsch: la cultura spazzatura per il popolo, prodotta in serie e a basso costo, in effetti accoglie rapidamente questo nuovo sistema narrativo misto. La produzione di massa di fumetti normalizza lo spazio culturale in cui nasce questo sistema narrativo e lo predispone ad essere ospitato sui media generalisti: giornali d’avventura, popolari e a basso costo, e i quotidiani. Il fumetto di massa propone il ritornello, la ripetizione che permette di continuare a seguire indefinitamente il susseguirsi di immagini-storia.
Così il primo fumetto a sancire un successo commerciale per il contenitore che lo ospitava fu The Yellow Kid di Richard Outcault (1895), a lungo venerato come quello che aveva stabilito le regole del sistema e l’esistenza stessa di questo. In realtà si tratta del fenomeno che lega, per la prima volta, con successo, questo nuovo modo di scrittura con il capitale e la produzione di massa. L’innovazione passa anche e soprattutto per la possibilità di stampare a colori a basso costo, cosa che è possibile solo sessanta anni dopo Töpffer. Perciò il giallo, yellow, è così importante da prendersi il nome della strip e da essere litigato tra due concorrenti in lotta, Pulitzer e Hearst. Sarà quest’ultimo ad avere la meglio alla fine, e il termine yellow cominciò a caratterizzare un giornalismo ‘giallo’ attento alle tirature più che ai contenuti. Ma l’esistenza di questo successo spinse altri editori e altri autori a trovare nuove strade, nuovi personaggi. E anche l’arte ritroverà nuove strade proprio a partire da questa intrusione del cattivo gusto (Rancière la definisce una sfocatura delle specificità dell’arte). L’underground si annida in alcuni spazi che restano liberi sia dalla spazzatura che i ricchi vomitano sui poveri, sia dall’arte dei poveri, quella che pian piano vanno dimenticando o quella nuova che stanno assorbendo. Corpi irriducibili nel rapporto capitale sfruttamento produzione. I territori dell’arte ribaltano nel tempo il centro: dal binomio arte borghese/industriale che sia, o avanguardia/kitsch, si apre uno spazio per il pop, il pop underground e ancora dopo per i graffiti e certamente per le zine, da qualunque comunità provengano.
In Europa le cose vanno diversamente all’inizio del secolo scorso. È un espressionista anarchico, un belga emigrato prima in Francia e infine in Svizzera, a dare forma a qualcosa che oggi sapremmo chiamare graphic novel: si tratta di Frans Masereel e delle sue stampe xilografiche, una cinquantina di libri prodotti, grotteschi e fortemente politici. Che soprattutto non hanno mai un elemento di serialità fra di loro, o un personaggio fisso a fare da filo conduttore a tutte le pubblicazioni. Dopo altri sessanta anni quelle immagini torneranno di nuovo dall’altra parte del pianeta a motivare autori come Art Spiegelman nella ricerca di nuove forme e narrazioni nel sistema fumetto. Questa volta a partire da una visione di ricerca e underground. Tra l’altro la xilografia, l’incisione su tavola di legno, ora ripresa dalla recente onda autoprodotta assieme alla linografia, incisione su linoleum, è una tecnica che ha condizionato fortemente il segno largo e assertivo del fumetto. I primi comics erano intagliati su tavole di legno e venivano venduti come cartolina ricordo di eventi popolari piuttosto cruenti: una esecuzione capitale una partenza per una guerra sanguinosa, come t-shirt oggi ad un concerto, nel procedere delle stampe il legno via via si rovinava e perdeva definizione e il tratto nero si allargava.
Con la produzione di massa le strade del fumetto americano si dividono: da un lato il fumetto industriale, quotidiano, stampato ogni giorno o settimanalmente. Dall’altra albi che seguono la via dei penny dreadful: avventura ed eroi a basso costo. Si insinua il surrealismo di George Herriman, l’espressionismo di Lionel Feininger, che portano in qualche forma delle esperienze di derivazione europea alla ribalta popolare. Poi i primi underground degli anni venti, le Tijuana bibles, falsi devianti, remake porno dei successi di mercato. C’è più di una via ironica: Elzie Segar ad esempio, autore di un Popeye marinaio senza lavoro, istintuale e poetico, la cui relazione con gli spinaci può indurre varie interpretazioni, o i mostri grotteschi di Basil Wolverton, due autori che Robert Crumb incrocerà poi nel suo segno. È con la rivista Mad (1952) di Harvey Kurtzman che il fumetto americano ritrova la sua instabilità e poco dopo la svilupperà per un pubblico di massa grazie alla diffusione delle esperienze di espansione e gli stati alterati indotti dagli acidi, dalle nuove droghe. Underground diventa Pop. Una dimensione che muta il termine designato in comix, dove la x sta per il contenuto adulto, e che, tra i sessanta e i settanta, narra psichedelia, movimento hippie, surfisti cosmici e tutto un network di freak scoppiati e illuminati. Underground in questo momento va a definire, come se fosse un movimento, le produzioni di uno specifico gruppo di autori — Robert Crumb, Gilbert Shelton, S. Clay Wilson, Spain Rodriguez, Victor Moscoso, Rick Griffin, Robert Williams —. Non descrivono mutanti in senso fisico, ma devianti dal regime di rappresentazione di sé della società americana a loro contemporanea.
In Italia c’è una piccola borghesia, e quindi, non può esserci contro la borghesia che una piccola rabbia; cioè soltanto le grandi borghesie industriali, come la borghesia di Parigi o di Stoccolma o di Londra, o di New York, possono suscitare casi quasi istituzionalizzati di rabbia rilevanti. In Italia no, perché la borghesia è piccola e allora, direi per ragioni di proporzione, anche la rabbia contro la borghesia è provinciale, piccola, limitata (da Pasolini l’enragè, 1966).
Benché la relazione capitale movimenti nel dopoguerra si sviluppi nel quadro visto da Pasolini, la situazione dell’underground in Italia punta molto a dare un senso politico ai propri progetti: Re Nudo (1970) propone un circuito di scambi produzione “parallelo e alternativo a quello borghese“, definisce l’underground “di per sè una forma di lotta politica”, connettendo autoproduzione e controcultura. “È formato da individui non inseriti nel contesto produttivo, devianti, che rifiutano il progetto di vita capitalista” (Alessandro Bertante, Re Nudo: underground e rivoluzione, 2005). È una lotta per un tempo di vita liberato dai ritmi e dall’accettazione stessa del lavoro. È controculturale e intrinsecamente politico: l’underground rappresenta in Italia una critica radicale della vita quotidiana effettuata attraverso fogli e istanze libertarie. I fumetti in questa area entrano in gioco subito con Puzz controgiornale di sballofumetti di Max Capa (1971) e Insekten Sekte di Matteo Guarnaccia (1970) e la contestata Fallo di Angelo Quattrocchi. Puzz in particolare mette in moto un processo che collega fumetto e lotte sociali con i Gatti Selvaggi, e le lotte per l’autoriduzione si sviluppano al fianco dei meccanismi di autoproduzione e delle storie a fumetti.
Nasce nel 1976 il CDNA, Centro Diffusione Notizie Arbitrarie, per la riconquista del terreno comunicativo e dell’informazione anche attraverso depistaggi, copie pirata e falsi (dopo il situazionista Re Nudo 6 – colpo di mano del 1971). Mano mano che ci si avvia verso il ’77 questo linguaggio si espande aprendo spazi di scrittura e di produzione che si rivolgono ad un nuovo pubblico disperato, radicale, proto punk e che si ritrova a suo agio nelle narrazioni orali della scrittura disegnata: si individua una zona di autoproduzione che si farà editoria di massa. È l’ala romana del movimento di controcultura beat, la Stampa Alternativa (1974), agenzia di controinformazione di Marcello Baraghini, quella che crea dei cortocircuiti più ampi. Qui si formano le esperienze più avanzate e si accoglie tutta la marea di zine in cerca di copertura legale. A Stampa Alternativa fa riferimento il gruppo di post dada e surrealista di Zut (1976) che teorizza per primo il falso come strumento di svelamento e rivolta, e si combina poi con il gruppo bolognese di A/traverso di Bifo ne (La) Rivoluzione. È qui che approda Stefano Tamburini formando poco dopo assieme a Massimo Mattioli Cannibale (1977, nome preso dalla storica zine dadaista) che con Zut è il nucleo che si riverserà ne il Male (1978), devastando lo spazio dell’informazione grazie all’intervento di gruppi provenienti da varie altre formazioni e, sotto la guida di Vincino, produce un terremoto editoriale con centinaia di migliaia di copie vendute.
Con Frigidaire tutto questo processo vitale si raffredda, sono gli anni ottanta e cambia nuovamente la prospettiva: in Europa, dove si sviluppano una quantità variegata di esperienze e si frammenta lo spettro della produzione aprendo infine un divario tra fumetto d’arte e quello di strada (o tra fantascienza e distopia, tra generi e realismo più o meno stringente e via dicendo) con un vastissimo panorama di autori stili riviste e zine. Un movimento di liberazione che si è arrestato proprio su questa contrapposizione fra pop e autoriale – in Italia era la distanza tra la mentalità Cannibale e quella del collettivo estetizzante di Valvoline -. Quando gli autori, per ottenere la certificazione del valore delle proprie creazioni, hanno cercato una riconferma del proprio operare nel sistema dell’arte mettendo in secondo piano il fumetto, hanno perso la relazione vitale con il pubblico che pian piano ha dismesso la propria partecipazione e condivisione. È un percorso complesso (molto analizzato in studi dedicati, qui solo sommariamente evidenziato per quanto riguarda l’Italia ma ha con caratteristiche locali differenti su cui non mi soffermo per il momento) che porta ad un ritorno all’ordine del fumetto nel mercato generalista, quello che produce il “ben fatto”, la struttura ben realizzata e certificata dal lettore, che tutto un sistema di studi autentica e garantisce. Nel momento in cui il fumetto sente il peso di essere un’arte minore e kitsch, taglia i ponti con la vita e si getta nel mezzo dell’implosione dei generi. Un passaggio che riporterà poi l’autobiografia a prendere spazio sotto forma di narrazioni più lunghe, che costituiscono il fondo più esteso nella produzione attuale di graphic novel.
Non è possibile però mettere in discussione questo ritorno all’ordine fino in fondo senza una prospettiva più ampia, di movimento: lo spazio che resta fuori dal capitale è ovviamente isolato e messo in aree controllate e marginali, un caleidoscopio di produzioni non integrate. Quando si apre la nuova stagione dei centri sociali della metà degli anni ottanta, quasi tutti occupati ex novo, l’idea di autogestione dei luoghi torna ad intrecciarsi con quella dell’autoproduzione delle opere. Da subito si formano all’interno di questi luoghi centri di distribuzione esclusivi, che, rifiutando per proteggersi di scambiare con il mercato, cercano di costruire reti parallele e separate. Ben presto questi spazi circoscritti e invisibili sono attraversati da una vastissima area giovanile, radicale, libertaria, politicizzata, fuorisede, precaria, e affamata di controculture, o culture altre. Questo finalmente è il punto in cui si spezza l’isolamento dell’esperienza. Gli spazi eterotopici dei centri sociali, di matrice punk e post punk, vedono il confluire degli studenti del novanta, ultima vampata dei movimenti universitari che difendevano l’accesso di massa alla formazione e dovevano porsi a confronto con le nuove forme di guerra dei media. Qui l’autoproduzione trova uno scambio di maggiore scala, proprio per la presenza di un pubblico/fiancheggiatore vasto consapevole e politicizzato. E si organizza in sistemi di arti e produzioni differenti.
Nel fumetto il produttore più consapevole, reticolare e visionario, è il proprio il Professor Bad Trip, che lavora ad un nugolo di produzioni intrecciate parallele e weird che attraversano la penisola e i novanta. A Milano partecipa a Decoder, la rivista che porta il cyberpunk e le discussioni sul copyright al centro del discorso sulle culture antagoniste. A metà degli anni novanta c’era una rete di produzioni indipendenti in ogni campo, degli eventi radicali e partecipati e molta discussione su metodi e forme dell’autoproduzione. Gli autori di fumetto in questo momento lavorano sull’abolizione del meccanismo narrativo incentrato sulla sequenza di racconti basati su di un personaggio, mentre il mercato si sviluppa all’opposto. Era possibile immaginare solo storie piuttosto brevi e le pubblicazioni erano sporadiche, a cavallo tra editoria e produzione indipendente. Si afferma il modello della zine a contributi, con un filo conduttore su cui si converge con storie brevissime e illustrazioni. A Roma sul finire del secolo, tra le altre esperienze, sicuramente centrale è Torazine la rivista che rappresenta il ritorno incendiario dell’underground tra testi collage falsi reportage e, certamente, fumetti devianti.
Da questo scenario nasce all’inizio del XXI secolo Crack!, festival dedicato agli autori che sviluppano nuovi linguaggi, che affidano ad altre associazioni il percorso della comunicazione autore pubblico. Un festival senza intermediazioni, senza editori, destinato a formare uno strappo, uno spazio fortemente critico con lo spettacolo, che ha riposizionato la produzione underground e ancora una volta ha modificato di ritorno il mercato di massa. Identificando e strutturando la relazione diretta con un pubblico che in quel momento era già in cerca di quello che nel mercato non era facile trovare. La ricercatrice danese Rakel Stammer (The Underground of Fanzines, 2017) individua i caratteri che rendono in Crack! le zine un atto politico
L’interagire con gli altri, il costruire legami attraverso l’arte e il fare arte […] fare esperienza di una comunità fatta di estranei che diventano rapidamente familiari […] essere in grado di prendere uno spazio, essere ascoltata e ascoltare gli altri, discutere le mie esperienze e come ho scelto di fargli prendere forma, ha avuto un impatto enorme. […] Mi rendo conto di essere inserita in un sistema capitalista, e che invece posso lavorare per smantellare la centralizzazione di questo sistema, mettendomi nell’underground, mettendo in discussione la necessità stessa di professionalità e valore. Invece di entrare nella convinzione che dobbiamo professionalizzarci per “guadagnarci da vivere”, dovremmo capire che siamo noi quelli che stanno perdendo spazio, se permettiamo di installare punti d’accesso e professionalità. Non saremo certo noi a guadagnarci da vivere – saremo quelli senza vita, se consegneremo il diritto di definire ciò che costituisce l’arte “reale” e la cultura “reale”. Le zine non sono qui per essere raffinate, sono qui per minare le valutazioni basate sulle gerarchie. Sono qui come documenti che dimostrano l’esistenza dell’altro, non per chiedere il permesso di esistere.
Distruggendo ogni idea di professionalità ci si pone al di fuori di competizione e produzione capitalista, e si smantella con questo anche la relazione di classe che lo spettacolo produce attraverso il riconoscimento dello status di artista. Il festival diventa un ambiente che dà spazio al produttore underground e radicale, soggetto creatore, in cui calarsi, in cui riconoscere non una narrazione organizzata ma una trama sensibile dell’esperienza in sé, quello che è, appunto, una estetica. E una politica.
Il fatto che gran parte della critica legata a questo sistema narrativo non percepisca gli spazi estetici che si producono fuori dalle forme consolidate di immagine-storia è il segno del senso di colpa originario, dello stigma direbbe AkaB, che impedisce ancora che il fumetto arrivi veramente lontano nel suo dominio: ancora non esiste un fumetto che si sviluppi intorno alla sua struttura assente. Perché sempre quando gli elementi non hanno una diretta rispondenza ai canoni definiti su cui formare giudizi, si confinano queste previsioni nel campo degli sperimentalismi, delle prove, del segno brutto e sbagliato. Abbiamo dimostrato che non è così. La bellezza divisa in quadri di un fumetto va cercata proprio dove a prima vista sembra non essere. Sta, come nel Torso, nei monconi disarticolati, più che nei romanzi ben composti e sceneggiati, disegnati bene (o finto male per compiacere il lettore avant-garde). Nelle visioni nebbiose, storte e dubitative dove i dati raccolti non servono a produrre ‘belle figure’, ma fumetti irriducibili alle parole che portano e alle immagini che narrano. Esistono già lettori capaci di amare questa distorsione, creata dai fumetti che pongono problemi. Invece di rimproverare le certezze che mancano, la critica dovrebbe contribuire a rendere incerta la verifica. È facendo crescere dubbi che si producono mondi. Immagino fumetti senza altro supporto che una singolarità soggettiva: che sia quella di un autore, o di un molteplice che abolisce l’autore, o di un replicante che stia costruendo da sé la sua propria logica.
La sospensione della storia è esattamente uno spazio che la rende potente e in grado di aprire nuovi percorsi, ma se la ricerca del lettore si ferma solo sullo strato della struttura consolidata, sperimentata e già definita, non aiuta chi produce a far si che questa liberazione possa avvenire. Giorgio Agamben (Il fuoco e il racconto, 2014) ricorda come Pasolini affrontasse Petrolio (1992) “come la rievocazione o la ritrattazione di un’opera” revocando proprio lo status di romanzo al libro che l’autore presenta come incompiuto, potenziale. Un po’ come lo è America di Kafka, e come forse sarebbe stata tutta la sua produzione se non fosse stata rimontata e tramandata in forma di romanzo, più conclusa, più conciliante. Pasolini questa operazione la svolge deliberatamente affermando che “dovrà presentarsi sotto forma di edizione critica di un testo inedito (considerato opera monumentale, un Satyricon moderno). Di tale testo sopravvivono quattro o cinque manoscritti, concordanti e discordanti” insomma un progetto fatto di pezzi contraddittori, un vero torso monumentale appunto. Un progetto deliberatamente frammentario e incompleto, un oggetto che ancora nel fumetto non esiste, benché come abbiamo visto questa idea di frammento, di distruzione esista all’interno del sistema. Non è più accettabile pensare che sia un sistema che possa lavorare solo nella sequenza, nella successione di immagini-storia quando lo spazio del fumetto è piano, è quello della tavola e non dello schermo. È più che mai evidente che abbia una serie di potenzialità totalmente non indagate.
Il fumetto è costantemente alla ricerca dei suoi spazi di imprendibilità, gli spazi weird o eerie come direbbe Mark Fisher (The weird and the eerie, 2016) e li trova più facilmente in uno spazio che definiamo underground per convenzione, anche al di là della sua accezione storica, legata come abbiamo visto ad un periodo una cultura e una controcultura. Weird e eerie sono due particolari generi di esperienza estetica, revisioni del concetto rinascimentale di strano, nel senso attrattivo e terrificante dell’esperienza. Nella modalità weird, troviamo qualcosa che non dovrebbe esistere qui in questo piano di realtà, il non appartenente. Nel modo eerie l’opposizione è quella presenza assenza, quando una cosa manca dove dovrebbe essere o è presente dove non dovrebbe essere. Sono elementi integrati nel concetto di straniamento che produce queste esperienze attraverso tutta una serie di meccanismi, con cui il mondo underground costruisce la maggior parte delle sue visioni.
Nel Don Quijote Sancio dice:
—¿Cómo puedes tú, Sancho —dijo don Quijote—, ver dónde hace esa línea, ni dónde está esa boca o ese colodrillo que dices, si hace la noche tan escura, que no parece en todo el cielo estrella alguna?
—Así es —dijo Sancho—, pero tiene el miedo muchos ojos y vee las cosas debajo de tierra, cuanto más encima en el cielo.
— Come puoi tu, Sancio — disse don Chisciotte, — vedere dove sia questa linea e dov’è questa bocca o collottola che dici, se la notte è così buia che in tutto il cielo non si vede una stella?
— È vero — disse Sancio, — però la paura ha molti occhi, e vede le cose sottoterra, quanto quelle di lassù, del cielo.
La paura guarda l’underground, che si serve delle categorie del grottesco, un genere il cui nome nasce dalle decorazioni nelle grotte emerse dagli scavi delle Terme di Tito, del kitsch che si è incarnato nel trash, e del brutto, orrorifico, volgare e deviante, o della satira, il politicamente scorretto: tutto questo collabora per sabotare il buon gusto del “fatto bene”, per diffondere radicalità contro mercato. Mentre le altre categorie, tutto quello che spazia dal sublime al tragico, perfino il comico, non riesce a vedere nulla nella notte tanto oscura, e resta fuori, ben esposto e confinato sugli scaffali della catena di distribuzione. Underground è uno stato di incertezza, una sensazione che permette di vedere quello che non è visibile, di raccontare quello che non è narrabile. Un recinto instabile, di potenzialità generativa. Non esiste una definizione dell’underground programmatica cui attenersi come prontuario per concepire opere, ma esiste una esperienza estetica dell’underground dove la presenza di questi elementi appena evidenziati di straniamento producono appartenenza a quel mondo, a quel modo di pensare le cose. Sono spazi estetici dove si sospende la sequenza e la costruzione di senso e di tempo che invece è richiesta nel mondo della produzione industriale.
La graphic novel è una forma stabile, una forma libro, che ha difficoltà a sciogliersi in un’opera incompiuta, frammentaria aperta che rifletta l’esperienza dell’autore. Anzi , come discusso a suo tempo da J-C. Menu (Dix ans de platitude, in Kaboom 2015), diviene un formato che costringe ad assumere una strada creativa e una forma predeterminati, un nuovo e diverso adeguamento industriale, ma permette deviazioni? Si potrebbe mai dire come Pasolini di farne una contraddittoria monumentale e frammentata? Si potrebbe intervenire radicalmente su formato e tipologia della stampa come si fa invece nell’autoproduzione? Se l’oggetto libro entra nel mercato è solo perché è un bene che va scambiato e costruisce plusvalore, quindi ha delle regole fisse che riguardano il formato per essere trasportato e stoccato, le caratteristiche cartografiche che sono decise per collane o grandi segmenti di prodotti, il numero di pagine e ogni altro dettaglio concreto del libro.
L’autoproduzione, può entrare, e compiere azioni, nel progetto in ogni fase. È la consapevolezza dell’impossibilità di produrre questo spazio estetico all’interno di uno spazio di scambio capitalista, che genera autoproduzione. La parola indica una realizzazione indipendente, al di fuori dei circuiti dell’editoria commerciale, progettata e stampata autonomamente, priva di intenti commerciali, legata al racconto di una passione, o al linguaggio di una comunità. Mark Perry fa il primo numero di Sniffing Glue nel luglio ’76 con quel che aveva in camera sua, una macchina da scrivere per bambini e un pennarello, e ne stampa 20 copie fotocopiate. Scrive sulla zine ”Non accontentarti di quello che scriviamo. Esci e inizia la tua fanzine” come un’altra fanzine punk di quel periodo, Sideburns, invita a fare con la musica stampando i diagrammi di tre accordi e dicendo “ecco ora vai e forma la tua band”. Pur se in quel momento esplosivo l’effetto di riassorbimento e sussunzione del mercato è stato fortissimo, il Do It Yourself punk si impianta sul collegare narrazione e produzione, nella consapevolezza della diretta dipendenza di una dall’altra. Un fumetto in questo campo non sta nella forma delle vignette nella loro sequenza in pagina o nella traccia della storia che ne muove i personaggi, sta nella forma e nei metodi della produzione. Le autoproduzioni portano dentro il proprio dna sperimentazione e intenti estetici configurati a mano: erano fatte dai dadaisti (come i merzbau) e tutte le riviste delle avanguardie sono pensate così. Sono tutte frutto di un desiderare senza limiti che attiva una comunità nello scambio di frammenti delle proprie magnifiche ossessioni.
Autoproduzione è una parola scivolosa che prende forme e sfumature diverse in altre lingue. In francese micro-édition, o small-press in inglese, centrano il concetto sulla modesta quantità di esemplari che si realizzano più che sull’autarchia del fare, l’operatore biopolitico del modo autonomous. Questa lettura allontana di molto tutti i meccanismi dell’editoria indipendente e underground da quanto si definisce nella parola self-publishing. Il modo self non cambia i meccanismi del fare le cose ma individua solo una fase diversa nella produzione. Per un numero sempre crescente di produttori di fumetti e immaginari legati alla narrazione grafica si tratta invece di una scelta di vita: così chi non riesce a ritrovarsi nel grande corpo dei festival ufficiali e del mercato editoriale, si auto-organizza degli spazi e delle edizioni che servono a rappresentare questa differenza e a produrne altre. Il meccanismo è continuo: si aprono ipotesi di futuro, si modificano panorami culturali e, di nuovo, mercati editoriali da cui si ritorna a separarsi. Tentando una definizione inclusiva, l’autoproduzione è un metodo collaborativo che permette la decisione autonoma dell’autore circa le forme della produzione, della narrazione, della distribuzione dell’opera e dei diritti collegati. Include un rapporto processuale con l’opera, con il suo sviluppo e con il pubblico che attiva. Necessita di spazi particolari e autogestiti (eterotopici) e di un pubblico critico e presente per svilupparsi, essere comunicata e distribuita.
Questo rapporto processuale nasce da un mutamento che si è sviluppato nell’ultima decade, e ora già vediamo che è in atto una nuova trasformazione che prepara sviluppi. In origine dicevamo come gli “autoproduttori” abbiano ben compreso che questa forma in cui realizzare le cose o un racconto o un suono necessitasse di uno spazio fatto allo stesso modo, i centri sociali. Era una corrispondenza perfetta. I centri sociali italiani oggi, dopo la frattura sociale che la repressione del G8 a Genova ha rappresentato sono entrati in una nuova fase, meno sperimentale e più territoriale, sono per la costruzione di relazioni stabili nel proprio intorno di appartenenza. Forniscono servizi sociali e culturali in autogestione, con l’offerta di laboratori o di sportelli sociali. Nei fatti però non sono più di per sé, in quanto tali, incubatori di senso e di linguaggio per le nuove forme di comunicazione. Sono un approdo importante, uno spazio consolidato su cui ci si può inserire per portare le nuove produzioni. Ma non sono, come invece sono stati, il luogo indispensabile per concepirle. Non esiste oggi la necessità di creare delle reti di distribuzione indipendenti, separate. Ci sono reti di distribuzioni più ampie e meccanismi di distribuzione immateriali online. Ci sono le reti di festival, che permettono di raggiungere direttamente il proprio pubblico senza intermediazioni e offrire queste creazioni dalle forme più o meno portatili e strane.
I festival sono degli addensatori, degli accumulatori di occhi che arrivano già interessati e intenzionati a compartecipare e infine a possedere queste creazioni che del resto sono difficili da raccontare, da rappresentare nelle descrizioni veloci del web o attraverso video e foto (si è standardizzata questa presentazione video astratta e meccanica, muta, in soggettiva, dove due mani, con professionalità chirurgica, con i guanti, sfogliano i libri pagina dopo pagina, in loop): esposizioni virtuali dove mancano gli aspetti analogici, carta, tecnica di stampa, rilegatura etc. Quando si attiva nella realtà invece il rapporto è uno a uno tra chi presenta e chi raccoglie e la necessità di creare un relazione fra i due soggetti è proprio quella che esclude che questo sia primariamente uno scambio commerciale. Non si tratta di affidare ad un pubblico il compito di leggere un libro, ma ad una persona il compito di conservarlo come oggetto, oltre che di leggerlo e diffonderne la conoscenza. Sono tutte operazioni che non possono più essere messe in atto da me che lo ho prodotto e fanno sì che questo oggetto continui il suo percorso. Un meccanismo processuale che non era nell’idea di autoproduzione degli anni novanta e che è invece la caratteristica di tutta l’ondata di questi ultimi anni.
In un workshop tenuto a La Fanzinothèque di Poitiers (Utopie et micro-édition contre U-D.I.Y., 2015), un gruppo di auto-editori si è riunito per discutere sull’utopia del concetto del D.I.Y. (do it yourself) e cercare di definire il senso dell’ideazione di opere autoprodotte che contengono questo elemento di processualità che abbiamo definito. E contemporaneamente la constatazione di come il D.I.Y. stesso nel suo complesso sia stato sussunto “Il D.I.Y. ha vinto, nel senso quel tipo di etica si è diffusa e il “sistema” ha trovato il modo di metterla al lavoro. Oggi per le grandi marche di vestiti o automobili è normale offrire servizi di customizzazione; i giganti tecnologici lasciano le loro piattaforme aperte così che il loro prodotti possano essere migliorati dagli utenti; il nostro “tempo libero” speso a navigare su internet a condividere informazioni, arte o a socializzare ha fatto la fortuna di compagnie i cui fondatori si sono formati negli ambienti della cultura DIY” scriveva Federico Primosig al proposito.
La ricerca in chiave Un-Do, del disfare questo meccanismo e questo schiacciamento che il capitale ha messo in atto, ha prodotto una mostra un libro degli eventi e un giocattolo di carta, piegato in forma di exaflexaedro, (un solido piatto derivante dalla flessione di sei esaedri differenti) che schiaccia sei immagini simboliche sul piano, e invita alla riflessione. Il lavoro, coordinato da Ratalia Espigadora, è stato discusso collettivamente e organizzato come disegno da sei degli autori invitati (Rafa el Doc, Srta Jess, Toxina, Carles G.o.D., Alice Socal e Bambi Kramer) e rappresenta nei sei piani: le forme di auto-organizzazione sociale in uno spazio autonomo (la Taz); i processi di rielaborazione di immagini e materiali frammentari di questo spazio estetico che ricompongono un network e i legami di una rete (Social Spiders Weaving Webs); le forme individuali del fare (Do It Yourself) e come si riversano su una comunità operante di artisti; l’aspetto narcisista e pubblico di tutto ciò, la gabbia del feticismo dell’identità che facilmente disabilita l’estetica underground e facilita il processo di riassorbimento di gentrificazione culturale del capitale; la distruzione di questo feticcio in un passaggio collettivo che scioglie i vincoli dell’autorappresentazione (Do It Together) “perché la vita passi attraverso” (Il carattere distruttivo, Walter Benjamin, 1931) dove si perde il rapporto fra produzione e rapporto; fino al continuo processo di creazione e condivisione che rimette in circolo le energie spese e le rinnova in altri processi (Un-Do It), ed è rappresentato come un albero di torsi, di freak esseri deformi e splendenti, con un ricco fogliame e una intelligenza collettiva alle sue radici, circondato dall’alchemico uroborus, il serpente che si morde la coda. L’autoproduzione descritta in questi sei punti emerge come un racconto che sospende il tempo del lavoro e del progetto in favore di un tempo ‘perso’, del non lavoro e per il processo. E consegna al fruitore un oggetto critico, problematico, a volte non comprensibile, fortemente vitale. D’altra parte come ricorda Deleuze (Che cos’è l’atto di creazione?, 2003) il nuovo è l’inatteso, è un linguaggio su cui ancora non sono state formate le parole d’ordine che lo decodificano, ma il processo messo in moto avanza anche oltre la necessità di comprendere e interpretare il tutto, anzi sovrasta proprio questa attività perché è il modo che ha per continuare ad esistere. A resistere. Importante è non la decodifica ma la creazione di trame sensibili di esperienza.
Bambi Kramer ha continuato poi nella sua rivista seminale Grow il ragionamento sul mondo vegetale come punto di vista altro, strumento di decodifica del reale senza occhi, e cita spesso a proposito del suo progetto un ragionamento di Emanuele Coccia che è utile riprendere qui:
É attraverso l’apparato radicale, in effetti, che la pianta acquisisce la maggior parte delle informazioni sul proprio stato e su quello dell’ambiente nel quale è immersa; è, ancora, attraverso le radici che essa entra in contatto con gli individui limitrofi e gestisce collettivamente i rischi e le difficoltà della vita sotterranea. Le radici fanno del suolo e del mondo sotterraneo uno spazio di comunicazione spirituale. La parte più solida della terra si trasforma allora, grazie ad esse, in un immenso cervello planetario.[…] Nell’immensa e silenziosa storia del sottosuolo, la notte è una percezione senza organi, né occhi, né orecchie, una percezione che si fa con il corpo intero (La vita delle piante, 2018).
È una riflessione aperta ai campi della neurobiologia, la nuova scienza le cui implicazioni descrive Paco Calvo nei suoi studi, che costituisce una potente metafora per l’operare del mondo sotterraneo che, come una pianta, costruisce linee e scambi sottoterra per comprendere il mondo con sensibilità e corporeità, e opera invece la trasformazione di materia con l’esterno attraverso al sua parte visibile, la chioma. Una duplicità che ogni pianta pratica vivendo nel suo stesso essere due ambienti diversi e opposti, come nel fumetto si contrappongono il mercato e l’underground, speculari e contrari. Da una parte scambiano contenuti per conoscere e percepire il mondo le zine, mentre dall’altra lo racconta il romanzo grafico lo racconta con tendenze, e narrazioni, totalmente antitetiche.
Fanzine, o meglio zine come viene detto più spesso oggi è un’altra parola che compare continuamente in questo ragionamento, e che crea problemi: ci sono molti spazi aperti nel racconto della storia delle zine nell’underground, si tratta di un panorama enorme, localizzato e specializzato, con derive differenti all’interno delle diverse aree culturali e sottoculturali. Con il progetto A la postre subterránea: una revisión del fanzine en Colombia, Andres Frix Bustamante, fumettista, artista e operatore culturale di Bogotà, raccoglie un consistente numero di esemplari di quel lato di pianeta e pone questioni interessanti di studio. Una fanzine è strumento di un gruppo di appassionati legati ad una certa scena, un oggetto autoeditato, a basso costo, o senza un costo, a tiratura limitata e a distribuzione incerta. Nasce in un’area di sottocultura, che scambia informazioni direttamente al proprio interno: una comunicazione grezza, non mediata, nella maggior parte dei casi, da cura grafica ed editoriale. È l’esempio dei chapbook ottocenteschi o delle fanzine prodotte in situazioni estreme, in guerra, in trincea perfino o nei campi di concentramento per far passare la paura che si prova. L’autoproduzione allo stesso tempo è mezzo espressivo di una comunità. In Italia se ne prende coscienza precisa negli anni sessanta, con Mondo Beat, ciclostilato a Milano (1966).
La definizione appena fornita però sperimenta i suoi limiti nello svolgersi della storia di ciò che rappresenta e vede ridursi, fino a scomparire, una o più di queste caratteristiche che ne costituiscono lo scheletro concettuale. Per esempio la tiratura può scendere moltissimo, come se la comunità di riferimento più che contattata debba essere costruita. Il prezzo può essere tutt’altro che ridotto spaziando dai pochi euro fino alle centinaia, lo scambio di informazioni fra adepti non è assolutamente un oggetto per una zine che invece costruisce uno spazio estetico, dove le informazioni possono essere criptate, occulte, fino ad essere completamente assenti. Siamo di fronte ad opere d’arte fatte sotto forma di libro, su più superfici articolate in qualche sequenza, la cui cura può divenire maniacale e le tecniche di stampa le più complesse che formano un sistema specializzato differente per ogni autore o collettivo. Sulla vicenda ha rilasciato una intervista Abraham Diaz delle Ediciones ¡Joc-Doc! dal Messico: “Una zine è una piattaforma di espressione autonoma per la pubblicazione che permette la comunicazione con persone di ogni genere. È il produrle a mano che ti rende un editore di zine. Esiste oggi un pubblico più dedito all’arte che alla diffusione di informazioni, e cerca quello che manca in un libro, la sensazione della mano umana nella produzione”. Uno spazio espressivo che costituisce un ponte fra chi produce e chi recepisce l’opera, definizione che si applica indifferentemente ad un’opera d’arte. Raccoglierne esemplari è la fantastica ossessione di collezionisti e fanzinotecari di ogni angolo del pianeta, che contribuiscono così alla conversione da sottocultura a cultura, catalogando, archiviando, producendo materiale per fare altre zine.
Le forme del capitale prendono possesso di tutto quello che possono trasformare e devono simulare quello che non possono produrre. Simulano spazi reti e produzioni culturali. Quello che da questa parte, l’underground, del mondo è zone autonome, network e movimenti, autoproduzioni, in quella parte diventa centri commerciali, piattaforme di controllo e prodotti. Si possono simulare città artisti e vite umane. L’arte di là è una merce e di qua è una vita, come diceva Hakim Bey. La zine, capricciosa forma di vita, resta certamente un’incredibile e potentissima rivelazione del tempo delle cose presenti cui appartiene, una visione attiva e laterale che brilla da ogni angolo del pianeta. È una forma espansa, superficiale, nel senso di ampia quanto il mondo: per rendersi disponibile questa modalità deve operare in una sospensione, una forma di eterotopia, la lezione dell’Un-Do, del disfare. Rifiuta la profondità, non è intenzionata a scavare fino a scendere verso il centro della terra per misurare il proprio desiderio. Il nostro andare underground, sottoterra, è una capacità di vedere cose come diceva Sancio che nella notte oscura stanno sottoterra quanto nell’alto dei cieli per via di una paura che ci portiamo dentro. Una inquiétezza che sta nel fare, attraente e strana, che si insegue e non si rifugge, che affascina e che restiamo a guardare.
In questa estasi la disattivazione della narrazione è un punto importante: non per forza la trasmissione di un senso, in questo regime estetico underground, passa attraverso la costruzione di un contenuto, strutturato, finalizzato, decifrabile in maniera univoca. I concatenamenti non scattano in un lavoro di sequenza, di macchina narrativa, ma attraverso “l’inoperosità delle immagini” che non per forza devono mettere, connessione dopo connessione, in funzione il dispositivo della storia. Questa sospensione produce una grande liberazione, una espressione di potenza che sta nel momento in cui, parafrasando Agamben (cit. 2014), si sospende il lavoro, il negotium, e nella contemplazione, nell’otium, si comincia a vedere davvero il mondo. Quello che permette la visione è un percorso che disabilita le dinamiche del fare per liberare Aisthesis, una contemplazione che rende disponibile l’essere umano “per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare ‘politica’ e ‘arte’”. La politica nasce dalla sospensione del lavoro, come l’estasi crea arte nella sospensione dell’opera. Lo spazio estetico underground sospende il lavoro per inventare immagini-storia.
Si tratta di una possibilità che si dispiega solo una volta sospesi i vincoli di causa effetto che collegano le immagini nel procedere di un fumetto classico, quello situato nello spazio del mercato. Se autoproduzione esiste è perché mantiene, stabilisce e libera questa autonomia delle immagini. Questo è il senso dell’Un-Do nell’underground: definire uno spazio e una pratica in cui lo spazio non sia devoluto a funzioni e la pratica non sia portatrice di azioni determinate. Produrre una esperienza processuale che possa delineare uno spazio estetico capace di fronteggiare il caotico, il nagual descritto da William S. Burroughs “Quello nagual è l’universo sconosciuto, imprevedibile, incontrollabile. Perchè il nagual abbia libero accesso, bisogna spalancare la porta al caso”. (L’arte nagual, 1990).
Fermarsi un attimo.
Aprire gli occhi, lasciarsi attraversare.
nota: Queste riflessioni non sono un percorso finito, vanno prese come un fatto provvisorio e processuale che appartiene alla cultura cui si riferiscono. Mi hanno aiutato nella definizione moltissimi elementi che sono alle volte esplicitati a volte no, raccolti sincreticamente da vie differenti, e di cui ringrazio gli autori e le autrici.